Per ingannar l'attesa fra un post e l'altro

Vi annoiate e non sapete cosa fare fra un aggiornamento e l'altro di questo blog?

Per bon?

No, veramente?

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venerdì 29 gennaio 2010

Storielle Grottesche - 2

Vi racconterò di come sia caduta la millenaria nazione della grande pianura, a est del Fiume Bianco.

A quel tempo, avendo attraversato secoli e secoli di governo pacifico, lo stato era a tal punto gravato da regolamenti, leggi intricate e burocrazie insensate, da non lasciare nemmeno un respiro di libertà al suo popolo: non c'era situazione che non fosse regolata, e ogni azione aveva un determinato premio o punizione nei Codici.

Il Re da tempo piangeva la miseria dello spirito della sua nazione; ma non poteva far nulla, perchè le leggi non permettevano al Re di abolire la Legge.

Col passare del tempo egli cadde in una lunga e straziante malattia, e quando sentì approssimarsi la fine, decise che avrebbe posto termine a una simile follia, non reputando più egli la Legge una cosa al di sopra degli uomini, bensì a loro servizio. Chiamò il sommo poeta del Regno, che era a servizio presso la sua corte, e gli ordinò di riscrivere le leggi usando la sapienza della sua Arte.

Al poeta servì una sola notte a riscrivere gli innumerevoli volumi dei Codici: al sorgere del sole presentò al Re un foglio sul quale v'era scritto con veloci svolazzi la nuova Legge.

Passati due mesi, il paese era nel caos: i morti giacevano nelle strade e nelle piazze, la carestia bruciava i campi, e nessuno lavorava per porre rimedio al disastro; fu così che con la morte del Re venne meno anche il Regno: ma le ultime parole del monarca furono di approvazione per il lavoro del poeta.

Il giorno dopo il Regno divenne una delle province dell'Impero, e l'Imperatore in persona, in visita alle nuove terre, volle vedere l'artefice di tanto delirio.
Quando vide il poeta, gli chiese soltanto che cosa avesse sbagliato nel riscrivere le leggi; "nulla" fu la risposta.

Da allora il poeta divenne il Sommo Poeta dell'Impero, a servizio alla corte dell'Imperatore: ma questi impose alle Leggi del Poeta il sigillo del fuoco.

mercoledì 27 gennaio 2010

Storielle Grottesche - 1

Si racconta d’un tale che passò i primi cinquant’anni della sua vita ad inspirare, senza mai espirare; al compimento del cinquantesimo anno s’era fatto ormai enorme, e tutti s’aspettavano che la potenza del suo primo fiato fosse tale da spazzar via il villaggio, un vento devastatore.

Ma, fra l’attesa trepidante di tutti, l’uomo di mezz’età esalò un soffio rauco, misero, simile a un peto; e di quel soffio morì.
Ci vollero tutti gli uomini del villaggio per seppellire quella enorme carcassa vuota, e da quel giorno la collina che fu la sua tomba non cessa di esalare stanchi miasmi.

martedì 26 gennaio 2010

Fretta

Attiva
Il Rivoluzionario è un contadino che vuol fare maturare i frutti col fuoco d'un fiammifero.

Contemplativa
'Quod natura relinquit imperfectum, ars perficit': vedete, la natura è come un mastro fornaio, che ha appena infornato una torta; e mentre questi si riposa giunge un bimbo impaziente e getta sul fuoco il dolce, pensando che così potrà mangiarlo prima.
L'orizzonte ci appare dritto, la terra ferma nello spazio, il lento lavoro delle ere ci pare inerzia: per vedere in lontananza bisogna imparare la pazienza.
Cos'è poi che la natura ci avrebbe lasciato d'imperfetto? Forse l'Arte è imparare a dimenticare la nostra idea di perfetto, ed iniziare a comprendere la perfezione della natura.


lunedì 25 gennaio 2010

Pietra d'inciampo

-Come fece Dio a far crollare la Torre di Babele?

-Proprio all'inizio dei lavori di costruzione, mise un sassolino sotto la pietra d'angolo, in modo da inclinarla impercettibilmente fuori bolla.

-Perchè la caduta della torre confuse le lingue delle genti?

-La caduta non è una perdita ma la rottura di ciò che un tempo fu un unità.
Come un vetro che si infrange, non può essere ricomposta.
Come un osso del braccio che si spezza, può risaldarsi ma darà dolori appena il cielo si annuvola, e l'aria si fa umida.
Il vento del deserto copre lentamente di sabbia le oasi, ma il veleno del dubbio può uccidere in un istante le antiche credenze.
Una guerra fra popoli passa per l'odio e nel sangue, ma in un modo o nell'altro giunge alla pace; ma una guerra civile non ha mai fine, lascia trincee d'odio nel cuore d'una nazione, getta per sempre un confine di diffidenza e incomprensione fra fratelli.

-Sono rimaste le rovine della torre?

-No, i marmi della torre vennero portati via e usati per costruire templi, monumenti e palazzi per i potenti del mondo.
Ma i buffoni di corte raccontano che la torre cresce ogni anno (un anno di Dio), e ciò che cade è solo il suo germoglio, mentre rimane sotto terra un bulbo, che cresce e diventa con le ere sempre più enorme.

domenica 24 gennaio 2010

La Lancia ed il Calice

Dicono che la Magia sia un'Illusione, e credono con ciò di affermare che la Magia sia niente, che essa non esista. Vi dimostrerò il contrario con un'illusione esemplare, un trucco dei maghi dei tempi antichi.

Il praticante dipingeva, o faceva tatuare, sul palmo della propria mano un'occhio;
Personalmente preferisco la mano sinistra, ma è una questione di inclinazioni- alcuni ne disegnavano uno per mano (con l'iride blu-celeste per la mano destra, e viola-lilla per la sinistra).



In maniera simile dipingevano, avvolto sul dito anulare, un serpente, d'un colore verde vivo, la cui coda posava sulla nocca del dito medio, sul dorso della mano, e la testa aveva le fauci spalancate, a divorare l'unghia.


La lingua del serpente, sull'unghia, veniva creata in rosso tagliando in due l'unghia con un coltello, o infilando violentemente una scheggia a punta sotto l'unghia, o con una lama arroventata: in questo modo la testa del serpente pulsava seguendo il ritmo del cuore e del respiro dell'illusionista, e ogni volta che il dito toccava un oggetto il dolore acuto richiamava l'intera anima del mago in quel punto, così come un rintocco improvviso di campana sveglia l'attenzione sopita dell'uomo distratto.
Similmente certuni ravvivavano il fuoco della pupilla sul palmo della mano con un punteruolo aguzzo, con una goccia d'acido, o con una punta arroventata.



Così, ponendo la testa del serpente come fosse una lancia fra gli occhi degli uomini ignari, gli illusionisti potevano violentare loro la mente, iniettando in essa pensieri, immagini o sentimenti; e coprendo col palmo della mano la fronte del malcapitato essi erano in grado di aprire loro l'anima come se fosse un libro, e leggervi i ricordi più nascosti, o addirittura rubare i loro pensieri, lasciando al loro posto il vuoto dell'oblio. (Pare che i più capaci riuscissero anche a leggere i sentimenti che gli oggetti assorbivano nel tempo dagli uomini con cui erano venuti in contatto; e in ugual modo riuscivano a caricare gli oggetti col fuoco dell'odio, colla concupiscenza, o con le carezze del perdono).




Ma la magia più terribile era chiamata 'l'artiglio del pettirosso': l'Artista stendeva il braccio contro la sua vittima, mostrando a questa la mano aperta - tutte le dita tranne l'anulare, ch'era invece chiuso, a toccare con la punta la pupilla sul palmo.



Chi veniva colpito da questa maledizione sentiva in un momento trapassate tutte le sue difese, come se una mano fredda, crudele, inumana, accarezzasse il suo segreto più nascosto, le corde della sua anima nascoste nel Santo dei Santi: un morso al collo, simile allo sguardo del falco sulla preda, un ago piantato nell'occhio, la pugnalata all'addome che fa sentire alla vittima il caldo del suo sangue prima ancora del sordo dolore.
E anche dopo passato quell'istante terribile l'anima così saccheggiata restava grigia, di pietra, spenta - come spogliata di sé stessa.

sabato 23 gennaio 2010

Digitus impudicus

 Conosciamo tutti il gesto osceno del dito medio - mostrare il dorso della mano col dito medio aperto ed esteso verso l'alto, ed il resto delle dita chiuse.
Possiamo dire che ai giorni d'oggi questo gesto sia diffuso pressoché ovunque nel mondo. Le sue origini sono molto antiche: veniva già usato nel teatro greco per insultare le persone; ne racconta Marziale nei suoi epigrammi, ed anche lo storico Svetonio; nei paesi del mediterraneo era usato anche per allontanare il malocchio.
E chiaro che, per espandersi tanto in largo e durare così a lungo nel tempo, un gesto deve possedere una sua radicazione intrinseca nella psiche umana. Ad esser poco seri potremmo dire che il digitus infamis è una forma di magia che ancor oggi funziona: vediamone dunque, attraverso una lente ingrandente e distorcente, i meccanismi.

Il gesto in questione, di per sé, è un insulto: ma ad osservare bene, vediamo che è un insulto volto ad una controparte che già in precedenza ci aveva insultato, infastidito, messo in discussione; il nostro linguaggio descrive alla perfezione questo stato: essere "sotto attacco".
Le risposte ad una manifestazione di aggressività sono essenzialmente due: la sottomissione o il ricorso ad una contro-aggressione; nel corso delle ere quest'ultima si è sviluppata in una forma ritualizzata (che di per sé rimane un atto aggressivo)- una dimostrazione di potenza superiore volta a risolvere la questione fra le due parti senza danni fisici, pur basandosi sulla forza.

Chiameremo agente colui che compie il gesto, e vittima l'oggetto a cui questo è indirizzato.
L'agente che si trova simbolicamente sotto attacco risponde, dunque, con una contro-aggressione ritualizzata: ordinariamente questa si traduce nell'alzare i pugni, nell'approntare la spada all'attacco (già i scimpanzé alzano il braccio minacciando con un bastone); in generale nell'aumentare la parte apparente della forza di un individuo.
Come dimostrazione di forza virile è molto diffusa l'esibizione del pene eretto: ritroviamo un comportamento simile negli ursoni, negli aguti, nelle lepri della Patagonia, dove al gesto si accompagna anche l'emissione di orina - lo ritroviamo anche nelle scimmie scoiattolo, negli uistitì, cercopitechi, babbuini, nasiche e in molte altre scimmie. Seguendo l'evoluzione di questo comportamento, possiamo ricordare gli astucci fallici dei Papua, l'uso apotropaico del simbolo del pene, lo stupro per spregio dei nemici in guerra (qui manifestazione di superiorità gerarchica), ed una miriade di altre ramificazioni del simbolo: infatti nel pensiero simbolico la spada ed il bastone, il pugno ed il fallo virile sono declinazioni dello stesso simbolo.
Così quello che nella mente dell'agente è un aspetto non ancora determinato del simbolo sopramenzionato si concretizza nel segno del dito, l'idea del gesto osceno ancora nel livello del pensiero; quindi passa al livello materiale attraverso i muscoli del braccio e delle mani (e questo è uno dei casi più palesi in cui il pensiero riesce a muovere la materia); in questo modo il simbolo del pene si incarna nella mano, e l'associazione con il bersaglio si incarna nel braccio puntato verso l'obiettivo.
La vittima che vede il gesto osceno rivolto a sé poi lo ricompone al suo livello simbolico (ancor meglio: ricompone ad un immagine la luce che dalla mano si riflette colorandosi, e fa di quest'immagine un simbolo); quindi, sotto l'influsso del simbolo, cade in quel sentimento di irritazione che il praticante voleva infliggergli. Qui sta il fulcro della magia: la mente della vittima cade nel stato voluto obbedendo ad un automatismo, anche contro la propria convenienza (di per sé è uno stato indesiderabile) e persino qualora la volontà cerchi di opporvisi.

Riassumendo, abbiamo così i seguenti passaggi:
interiorizzazione dell'aggressione -> risposta istintiva -> risposta simbolica -> manifestazione del simbolo -> trasmissione del simbolo attraverso la sua immagine -> ricezione dell'immagine e 'ricostruzione' del simbolo da parte della vittima -> azione del simbolo sulla vittima

Va detto che dopo la spinta iniziale della volontà di controbattere l'offesa, tutto il resto della comunicazione agisce a livello inconscio (e si può dire, specie per casi simili, che anche la volontà è spinta sia dalla coscienza che dall'inconscio) - in special modo l'ultima parte, nel quale il simbolo esplica la sua azione sulla psiche della vittima.

Il simbolo viene anche sovradeterminato mediante l'associazione del lato negativo del simbolo del pene (vedi 'sei un pirla', 'you are a dick', 'testa di cazzo', 'minchione', ecc...) con la vittima - associazione simbolica che segue lo stesso iter del simbolo precedente, e da cui in fondo è probabilmente indistinta ed inseparabile (si potrebbe dire che sono i due poli del significato del termine 'offesa')

E' da notare infine che la magia ha effetto verso due direzioni: infatti oltre ad indisporre la vittima gratifica l'agente, dando alla sua ira o al suo malcontento l'opportunità di uno sfogo verso l'esterno; tant'è vero che essa ha tale effetto sul praticante anche qualora la sua vittima non riceva il gesto.

venerdì 22 gennaio 2010

Una foglia

Un maestro molto potente voleva imparare a controllare la materia con la mente. Giorno dopo giorno prendeva fra le mani una tazza di tè in cui galleggiava una foglia di menta, e cercava di influenzare i movimenti di questa con i suoi pensieri.

Accadde però, a sua insaputa, che fu la sua volontà ad imparare ad assecondare i movimenti casuali della foglia.

Passati mesi, egli credette di aver appreso i segreti dell'interazione fra materia e psiche, e provò a controllare un pesante libro che aveva sulla tavola: ma la sua volontà non riusciva a far altro che ordinare al libro di star fermo.

giovedì 21 gennaio 2010

Orientarsi con le nuvole

Il pensiero logico e razionale è un'isola sicura ed accogliente dove, fra giardini curatissimi, sorgono i maggiori e più bei edifici della mente umana; è un rifugio sicuro dicevamo: non vi entrano che gli echi delle terribili tempeste del Sud.

Ma attorno ad essa vi è l'oceano del pensiero oltre-logico, oltre-razionale ('Irrazionale' è una parola errata, in quanto descrive qualcosa in base a una negazione di qualcos'altro che dalla prima è nata; ugualmente 'pre-logico' può indurci nell'errore, in quanto molti pensano le cose precedenti alle attuali come embrionali, ancora imperfette - come se l'evoluzione seguisse un andamento crescente e lineare).
Capita a chi sta troppo vicino alle spiagge di perdersi in quel mare; i pochi che tornano vi portano con sé tesori fantastici, e a volte mutilazioni terribili.

Vi sono molte guide per orientarsi in quelle correnti: per questo viaggio useremo come sestante il linguaggio dei poeti.
Non potrei raccontarvi ogni stella a cui questo si affida: vi mostrerò quelle più belle e luminose, e confido che saprete tirar da soli le ultime conclusioni da quelle che lascio da parte; d'altronde il compilar tabelle esaustive è lavoro da ragionieri e burocrati, e lo lascio volentieri a loro.

C'è l'uso in poesia, che chiamano sineddoche, meronimia, iperonimia ed iponimia, di prender una parte per indicare il tutto, o il tutto per una parte, e così via: similmente,nel pensiero chiamato magico e primitivo, un capello d'un uomo simboleggia l'uomo stesso a cui il capello apparteneva; sognare di denti che cadono è sognare di cadere, o di morire, noi stessi; e quelli di noi che più sono esposti alle correnti delle passioni son pronti a giudicare un gruppo in base alle azioni di un singolo dei suoi componenti, o una persona in base alla popolazione a cui appartiene: questo perchè nel profondo c'è un'identità fra le due idee.

Ci sono poi quelle che i maestri della noia chiamano anastrofe, appallage, chiasmo ed isterologia: l'ordine temporale, i rapporti di causa ed effetto e simili leggi venute da poco qui non hanno mai attecchito, e son solo figure vuote prive di valore.

Similmente l'allegoria e la metafora ci mostrano che nel regno delle tempeste non c'è la distinzione, come nel pensiero razionale, fra le diverse classi di un simbolo: un leone, il coraggio, la ferocia e la fame sono in quei luoghi terribili una cosa sola, un unico indivisibile.

E l'eufemismo nasce dalla paura di pronunciare il nome delle cose troppo stridenti ad alta voce: i pensieri infatti scorrono senza rumore, ma il suono delle parole dà ad essi corpo e potere, e li pone inevitabilmente di fronte al giudizio della coscienza.

L'iperbole è il riflesso dell'incapacità del precosciente di distinguere in maniera netta l'intensità di un'entità - o, come diremmo noi, la capacità del pensiero antico di amplificare con lo sguardo l'oggetto dell'osservazione.

Ci sono poi i termini olofrastici: le frasi più brevi sono state forse le prime ad esser state urlate, ancora a mezza strada fra il linguaggio ed il verso animale. Sono comandi immediati: 'vai!'; 'dai!'; 'no!' e via dicendo. Sono comandi immediati, e millenni o milioni di anni han scavato per loro una strada diretta dall'orecchio alla mente. Il primo impulso è quello di obbedirgli, e solo in un secondo istante la volontà potrà valutarli e decidere se seguirli o meno.

L'ironia e l'antifrasi ci mostrano che al sorgere di una direzione nel pensiero baciato dal sole compare la corrente opposta nella sua zona d'ombra; benché contrarie queste due spinte sono gemelle, e formano in origine un'unità.

Ci sono altre mille stelle, più o meno luminose, colorate o sorde- uomini con molto tempo a loro disposizione le han chiamate (intrappolate in nomi composti con lingue morte!) anastrofe, ossimoro, anafora, disfemismo, anagogia, reticenza, dialogismo, anfibiologia, enantiosemia, anacenosi, entimema, paranomasia... secoli di studi sui libri le hanno rese grigie, ma confido che voi saprete tirar via la polvere che le ricopre.

E poi ci sono le guide ancor più distanti e difficili dei giochi di assonanze, e il mistero dei suoni stessi: la P ch'è autorità e disprezzo, la M del desiderio, l'ipnotizzante pericolo della S...

Perdetevi e naufragate! Scoprite anche voi sulla vostra pelle il motivo per il quale il linguaggio poetico ha tanto potere sulle menti che sanno parlare al proprio sé più arcaico, o che ne sono succubi, mentre resta incomprensibile a chi ascolta soltanto ciò ch'è razionale, per scordare tutto il resto di sé.

mercoledì 20 gennaio 2010

Quattro piccole bugie

Volontà ed evoluzione

La volontà è uno di quei concetti che sembrano inafferrabili, e sembra cambiare profilo a seconda di dove la si guardi - un miraggio!
Proviamo a guardarla così: la volontà è il distogliere energie volte al soddisfacimento di bisogni immediati per deviarla al servizio di mete differite nel tempo e più astratte.
Ciò che subito balza all'occhio è che per l'affermarsi della volontà, sia a livello di filogenesi che d'ontogenesi, il presupposto necessario è un ambiente che abbia una sufficiente abbondanza di risorse: chi ha lo stomaco vuoto penserà a mangiare piuttosto che a sviluppare progetti e persistere in essi.
Ma un'abbondanza di risorse, o una sovrabbondanza di esse, ha l'effetto di bloccare la competizione, e di conseguenza, la selezione alla base dell'evoluzione di una specie.
Si potrebbe quindi ribaltare il rapporto fra ambiente e volontà, ed ipotizzare che la volontà sia sorta come risposta evolutiva ad un ambiente senza spinte selettive: di fatto la volontà opera, a livello di società, come una selezione (non più completamente naturale, si potrebbe dire).
Quindi la società che sviluppa la volontà continua ad evolvere, con un feedback evolutivo positivo (la volontà favorisce l'evoluzione, e quest'ultima favorisce la volontà), mentre la società che si limita a godere dei frutti facili che l'ambiente le offre rimane ferma ed è destinata ad essere sorpassata dalla prima.



Naturale ed Artificiale

E' radicato in noi il concetto di separazione fra naturale ed artificiale: artificiale è tutto ciò che è fatto dall'uomo o che da esso consegue, quasi che l'uomo non sia egli stesso parte della natura. C'è un fondo di presunzione da parte dell'uomo ad estraniarsi dal mondo dal quale è nato: e ciò che si pone a distinguere i due mondi è spesso una differenza di scala che rivela un punto di vista molto ristretto, molto umano.
Si dice ad esempio che un edificio prodotto dall'uomo è artificiale perchè si differenzia dall'ambiente circostante, e lo modifica e ne altera gli equilibri; ma lo stesso può venir detto di un termitaio, eppure quest'ultimo è naturale. Si obbietterà: col tempo il termitaio viene distrutto dal clima e da altri fattori ambientali, mentre l'edificio in cemento armato rimane nel tempo come una cicatrice; chi si esprime così non conosce la velocità con cui le opere dell'uomo vengono sgretolate dal tempo; ed anche in caso l'equilibrio così toccato ondeggiasse per milioni d'anni prima di ridivenire statico, che differenza farebbe agli occhi dell'universo? I giorni e le ere sono incommensurabili l'un l'altro soltanto per gli occhi dell'uomo.
Cos'è dunque che muove l'uomo a volersi estraniare dall'ambiente che gli ha dato la vita? Viste in un certo senso, le dinamiche che agiscono in questo processo sono molto simili a quelle che intercorrono fra i genitori ed il loro figlio mentre questi attraversa l'infanzia ed esce da essa.
C'è infatti la necessità di individuazione -con il distacco ed anche il risentimento, la violenza (la percepita 'distruzione' della natura).
C'è poi il senso di colpa conseguente all'individuazione stessa percepita come tradimento o addirittura uccisione dei genitori: e ogni volta che la natura si fa distruttiva parliamo di sua vendetta.
Ed il senso di colpa ci porta ad un senso di inferiorità: la parola stessa artificiale ci porta alla mente l'idea di debole, velenoso, brutto, inadeguato - poca differenza corre fra il quarzo ed il vetro, eppure quest'ultimo è così vile se lo paragoniamo al primo!
Riusciremo mai a perdonarci questo voltafaccia? Ci riconcilieremo mai con i nostri genitori? Bisogna capire che questo distacco è stato anch'esso un processo naturale: il nostro tradimento è stato voluto, alla fine, dai genitori che abbiamo tradito- un processo inevitabile per permetterci di proseguire per il nostro cammino.



Società ed evoluzione

Dopo la seconda guerra mondiale la scienza ufficiale si guarda bene dal discutere riguardo alle relazioni fra patrimonio genetico, cultura e comportamento individuale: sa di razzismo, ed è un campo minato che va evitato con la massima cura.
Così questi tre campi sono stati studiati in maniera separata, e i dialoghi fra queste specializzazioni del pensiero sono stati sempre timidi ed impacciati, improntati sull'assioma che le relazioni fra i tre vertici di questo triangolo siano deboli e trascurabili, e considerando più comodo trattarli come se fossero effettivamente separati.
Già la distinzione fra corpo e psiche è una cesura del tutto umana: la si è usata a difesa dell'indipendenza della mente dagli influssi del corpo.
Ma ad avere un filo di onestà si riconoscerà che il comportamento è influenzato dal corpo: anzi, è un'espressione della sua totalità (e non solo del cervello o del sistema nervoso!).
E' comunemente accettato che l'ambiente possa selezionare, nel tempo, determinate caratteristiche: una maggior resistenza al freddo o al caldo, una maggior facilità a digerire determinati elementi che in una data area si trovino con maggior abbondanza, e così via.
Ne consegue che a monte dell'influenza del corpo sul comportamento v'è la spinta selettiva causata dall'ambiente esterno: così l'ambiente viene ad influire sia sull'individuo che sulla specie, o nello specifico, sulla popolazione (parola che ha sostituito la parolaccia 'razza').
Similmente anche quando si parla di cultura la si considera un'entità astratta, slegandola da ogni origine individuale - ma essa ha la sua fonte nel tempo nella somma olistica dei comportamenti e della predisposizione individuale dei componenti della popolazione
A questo punto si innesta un meccanismo di feedback positivo: la cultura, nata dall'ambiente e dal comportamento di una popolazione, influisce sul comportamento stesso, ed a sua volta regola la selezione della popolazione: chi ha una predisposizione innata 'diversa', che gli rende difficile l'inserimento all'interno dello schema socio-culturale, sarà cacciato dalla società stessa, e avrà meno possibilità di assicurarsi una discendenza; viceversa, la società premia con il successo chi ad essa si confà con naturalezza.
Quindi la cultura seleziona il comportamento innato, e quest'ultimo 'crea' la cultura corrente; ed alle volte si giunge a modificare anche l'ambiente.
Si capirà la complessità di questi rapporti! E' inevitabile cadere in errore cercando relazioni semplici e lineari fra le singole parti; solo cercando di capire il sistema nella sua totalità si potrà vedere in una luce più chiara le interazioni che regolano i suoi componenti.



Precursori

Le idee nuove, corrosive, pungenti, quelle che sovvertono la consuetudine stabilita, le grandi scoperte, sono spesso, o forse sempre, semplici.
E' proprio la loro semplicità a nasconderle ai nostri occhi fintantochè non giunge il loro tempo?
Cos'ha di diverso l'occhio che è riuscito a vederle per primo?
E' raro che un ricercatore meticoloso scopra una nuova idea dopo anni di raccolta di dati: semmai la ricerca viene dopo, a confermare l'intuizione d'un istante, un lavoro secondario a conferma di quanto si sa già, si è 'saputo' in un attimo che sa di mistica - un'illuminazione.
Ne consegue che un criterio per capire la qualità di un uomo di pensiero è la semplicità del suo linguaggio: più le sue parole son forti e più sono comprensibili. Viceversa i discorsi tecnici, le parole difficili - con la scusa della necessità di precisione - sono un paravento dietro al quale si nasconde il fatto che non si ha niente di nuovo da dire - se non tracciare sulla mappa la strada percorsa da altri.

Epilogo

Spina Christi
Epilogo

I vecchi vetri delle strette finestre si colorano del pallore dell'alba, ed alle mie spalle s'apre la porta della chiesa: il suo guardiano mi fa un cenno e so che devo lasciarla, devo tornare alle valli e non sarò più in grado di ritrovare la strada che porta a questa chiesa senza altari, persa fuori dai tempi e dai luoghi degli uomini.

Nel breve corso di questa lunga notte non sono riuscito a guardare che un decimo dei quadri incastonati in queste pareti; ma tanto basti: ognuno d'essi era in fondo uno specchio, e descrivendoli tutti non farei altro che elencare delle descrizioni di me stesso, visto da diverse angolazioni.

martedì 19 gennaio 2010

Il grido di Gesù in croce

Spina Christi
17 - Il grido di Gesù in croce

Su una grande pergamena- alta un metro per 60 cm, ingiallita da almeno cent'anni passati- erano stati graffiati dei segni di china nera, come con rabbia, ma di una lucidità tale da rasentare la follia: una tempesta di incisioni, più simile ad una scherma diabolica che alla pittura. Si sarebbe detto a prima vista che l'intero quadro fosse stato disegnato in pochi minuti, come di getto, se non fosse stato per lo studio delle armonie che reggeva la composizione, dove ogni minimo tratto di china era indispensabile e non avrebbe potuto che essere li dove il folle autore lo aveva posato.

Una croce, un flusso di grida oscure, quasi un torrente d'odio e di paure, divideva il campo del foglio; su essa il Cristo era avvolto come un soldato nel filo spinato, contorto, dilaniato dal destino che lui stesso s'era preparato. Le sue braccia erano secche, e il volto scompariva sotto i capelli, come a volerlo celare dall'odore della morte; le gambe erano ossa incapaci di muoversi, ricoperte di pelle grinzosa.

Ma il suo torace era vivo, anzi era la Vita: aperto, spalancato, come esploso, la pelle ormai divenuta schegge di rovere, le costole simili al ghigno d'un demone che non conosce altro che fame.

E lì, dove la tempesta era più intensa, lì c'era l'unica nota di colore del quadro: un piccolo globo rosso, fragile ed immutabile più sogno che materia, eppure più reale della stessa realtà.

lunedì 18 gennaio 2010

Docetismo

Spina Christi
16 - Docetismo

Non fui in grado di stimare il tempo e il luogo in qui questo grande quadro - 200 cm d'altezza per 260 di lunghezza- fu dipinto. La tecnica pittorica è infatti piatta, volutamente spenta, quasi priva di tratti e pennellate, neanche fosse una stampa di poco valore; soltanto in un punto si fa vibrante, e sembra prender vita.

Su un terreno smosso di fango secco, tondeggiante come la cima di una collina, è raffigurata la scena della crocifissione - Gesù e i due ladroni sulle tre croci, le dame piangenti alla loro destra, i soldati sull'altro lato, e -sparsi e distanti- i pochi discepoli spaventati.

La scena è "raffigurata", dicevamo, ed invero è questo il termine giusto: che grazie ad una prospettiva leggermente angolata rispetto all'asse della scena, possiamo vedere la finzione che la sorregge.
Ogni gruppo di persone non è nel quadro che una sagoma dipinta su del legno sottile, tagliato e traforato, sostenuta da dietro da un paletto a far da cavalletto.
E di colori sbiaditi e piatti è anche il cielo, con le sue nuvole sfumate d'arancione e contornate di nero; piatto e fermo, finto, immobile.

L'unico polo in cui il quadro si faceva vivo, attorno al quale il colore cessava di essere una palude stagnante per divenire una fresca sorgente era lui: dritto, in piedi, col corpo di ossa e di carne palpabili, unico uomo vero in un vuoto di finzione scenica. Giuda l'Iscariota, con il cappio ancora intorno al collo, cercava insistentemente attorno a sé il respiro del suo maestro d'un tempo, dei suoi ex-compagni, dei suoi complici e della sua vittima.

Cercava, quasi volendo negare a sé stesso di essere l'unico, di essere il solo rimasto, di essere vittima egli stesso di un meccanismo dagli ingranaggi grandi, più grandi, talmente più grandi di lui.

domenica 17 gennaio 2010

L'inverno nero di Cristo

Spina Christi
15 - L'inverno nero di Cristo

Lo stile del tratto e certi accorgimenti stilistici fanno pensare che l'autore sia lo steso del dipinto precedente - anche le dimensioni e la cornice del quadro sono le stesse. Lo schema compositivo dei due era poi talmente simile che si sarebbe addirittura potuto sovrapporli: si potrebbe pensare che i due formino una coppia concettuale, ma chi oserebbe accostare due gusti così stridenti?

Si, anche questo quadro era dominato dalla croce centrale, nelle stesse misure: ma nessun fiore spezzava la tetra notte, nessuna vertigine di colori era baciata dal sole, nessuna gioia si levava in volo. Sulla croce, avvolta da una luce verde-giallastra che sembrava promanare da essa,  il Cristo imperava, e visto dal basso verso l'alto pareva quasi assiso su un trono di gloria inumana; le sue mani non erano inchiodate, ma appoggiate sul lato superiore delle braccia della croce, e l'intero suo corpo sembrava fluttuare a mezz'aria, senza peso.
Un brivido di orrore e fascino intrecciati era il corpo del Cristo: il colore della pelle era quello dell'acciaio, i suoi muscoli tesi e lisci, la sua forza invincibile.
Il suo sguardo, insostenibile, era teso all'orizzonte, privo di ogni minimo interesse per ciò che lo circondava; non aveva paura, non conosceva amore.

Accanto a lui, cerchi e cerchi di gente, non lanciati in danze ma immobilizzati dalla paura e dal fascino. Erano inginocchiati, umiliati, vestiti di grigio, identici gli uni agli altri, in un numero immenso ed incalcolabile.
Soltanto prostrati sarebbero potuto rimanere al cospetto del loro signore (e veramente la sua presenza portava timorosa gioia in loro): chi avesse osato alzarsi sarebbe stato travolto dalla potenza eterna del Re Cristo, e come una foglia nel vento si sarebbe perso.

E così prostrati rimanevano i fedeli, e ferma, in attesa, la folla adorante:  davvero, ricordavano i disegni che fa la limatura di ferro orientata da un forte magnete.

sabato 16 gennaio 2010

Il Cristo del Solstizio d'Estate

Spina Christi
14 - Il Cristo del Solstizio d'Estate

Un quadro di 60 cm d'altezza per 70 di larghezza, una tela in una cornice scura, con dei modesti fregi dorati d'intorno.
In mezzo a tanto nero, all'oscurità dominante degli altri quadri, colpiva immediatamente l'esplosione di tanti colori, sapientemente incoronati l'uno nell'altro. Ed il tema del dipinto era gioioso, talmente solare da donare alla spiritualità con cui era intrecciato un profumo popolare, quasi pagano.
Al centro, certo, c'era il figlio di Dio, sulla croce - come al solito, come sempre. Ma la croce, ed il corpo stesso del Salvatore, erano coperti di fiori, sia spontanei che a modo di decorazione. Non v'era frivolezza: l'insieme portava piuttosto alla mente un'antica casa, o una lapide dimenticata, che sia stata divorata da rose selvatiche o dalle viole d'aprile, o stretta dal glicine o dal profumato gelsomino.
Sotto il mare di Fiori, Gesù è vivo - e l'autore lo rendeva noto coi stizziti contrasti cromatici del corpo che si intravede fra i fiori, un corpo che è pur sul confine dell'essere nient'altro che un contorno.  Ma non cedeva all'idea di divenire un simbolo, egli voleva vivere: sotto il mare di fiori, il corpo annaspava, quasi affogava ma senza mai resa - era vivo.
Attorno alla croce, benedetti dal cielo sereno, danzavano giovani e anziani, uomini forti e donne discinte, stringendo nella mano fiaschi di vino e i frutti della terra, cibi, fiori, e la mano dell'amato; i loro piedi scalzi alzavano i petali dei fiori del prato confondendoli con le farfalle e i colorati uccelli che carezzavano in volo l'erba. Danzavano formando tre cerchi attorno alla croce: ognuno di loro era il petalo di una gigantesca corolla, che proteggeva e dava slancio allo stame attorno a cui ruotava: la croce, ultimo anelito di questa vita, e futura speranza.
Dall'alto, con lo sguardo e col sorriso, Gesù benediceva i suoi fedeli - ma il suo sorriso era guastato da un'ombra incerta: ricordava un condottiero che, giunto all'apice del cammino, veda dinnanzi a sé il declino, e tuttavia non voglia guastare la speranza incosciente di chi, dietro, lo segue.

venerdì 15 gennaio 2010

La deposizione

Spina Christi
13 - La deposizione

Un sottile cartoncino di 70 per 55 cm, graffiato da tratti essenziali - in cui ogni pennellata si riduce ad una scaglia di luce; il colore - forse tempere, ancora vive e lucenti- era usato alla maniera di quell'ottocento europeo che già iniziava a vedere oltre la superficie e le apparenze della realtà.

Su uno sfondo scuro, due figure diafane, quasi assenti, reggevano il corpo del Cristo ormai morto.
I due erano simili, quasi uguali si sarebbe detto - vestiti rozzamente, a malapena coperti da una tunica grigio-marrone, lo sguardo rivolto a terra; era uno strano connubio di tristezza troppo profonda e indifferenza, mancanza di coscienza. Il loro volto e la loro testa priva di capelli, rasata da poco, mostravano i tratti somatici delle popolazioni semite - ma essendo il capo reclinato in avanti, la loro faccia ricordava più una scultura d'ombre che un ritratto.
Sopra le spalle, appoggiato con entrambe le braccia attorno al collo dei due portatori, era Gesù, bianco come la morte, il suo respiro divenuto immobile, ogni suo muscolo pietra.
Persino le sue ferite, il suo sangue, era d'un grigio appena più scuro.

Osservato da distante, il quadro rivelava, attraverso la sua immobilità, la sua natura ed origine architettonica: i corpi dei due uomini erano disposti a formare la figura di una bifora (e la disposizione di ogni pennellata era disposta, orientata, ad esser fibra della struttura) e questa sorreggeva un arco ad unirla e proteggerla al tempo stesso - il Cristo.

Ma qualcosa non quadrava in questa apparente armonia; la chiave di volta infatti era troppo, troppo pesante per i due uomini, ed ogni loro passo in avanti sarebbe parso l'ultimo prima della caduta- la loro spina dorsale spezzata dall'immane carico.
Pareva che il buio intorno a loro urlasse, "Ricada su di voi il suo sangue!" Eppure le esili, umane figure, continuavano a reggersi in piedi, nonostante la condanna divina per una colpa che umana non era; com'era possibile?

Forse - ma è orribile pensarlo, e terribile dirlo - era il Cristo a sorreggere loro- come delle marionette mosse da un burattinaio.

giovedì 14 gennaio 2010

Gesù crocifisso fra l'indifferenza

Spina Christi
12 - Gesù crocifisso fra l'indifferenza

Anche per questo quadro ciò che subito balzava all'attenzione era la modernità del pensiero e della tecnica che l'aveva creato- era infatti dipinto ad aerografo, su un cartoncino molto spesso, alto 100 cm e largo 250.

La stessa scena rappresentata era palesemente uno scorcio degli ultimi anni del secondo millennio; eppure anche questo formava un amalgama unica con gli altri lavori degli anni lontani e dei secoli antichi, un amalgama attraversata di differenze che la rendevano pulsante di vita.

Già la larghezza pronunciata, anche in proporzione all'altezza, introduceva alla staticità ed alla piattezza, temi portanti della composizione. In colori velati da una tinta di freddo azzurro-grigio, era rappresentata una banale strada, di una squallida periferia, come ce ne sono di migliaia e migliaia al mondo. Un marciapiede di cemento, una lastra spenta, punteggiata da mozziconi di sigaretta - una strada piatta, incisa da crepe nell'asfalto ormai vecchio.

La vista del cielo era negata da palazzoni di appartamenti, dove la gente soltanto dormiva per poter dimenticare, per un attimo, una vita di sfruttamento e di misere ambizioni; per terra, uno scolo d'acqua sul bordo del marciapiede era intasato da foglie cadute, ormai marce.

Una manciata di persone camminavano sul marciapiede - camminavano come se avessero fretta: chi tornava dal lavoro, chi vi andava, chi invece andava ad un supermercato. Tutti erano vestiti bene, con vestiti diversi ma uniformi; chi non aveva un telefonino in mano, lo aveva nella tasca; ma tutti loro, giovani, donne, vecchi, bambini, erano soli, ed il loro sguardo vedeva il terreno soltanto.

E nel centro esatto del quadro, sul marciapiede, davanti allo sfondo dei cadenti grattacieli, v'era Gesù, crocefisso nella sua rappresentazione più classica: corona di spini, barba e capelli lunghi, ferita sul costato, un bianco straccio a coprirlo, ed in cima alla croce la pergamena con la scritta 'INRI'. Soltanto il Cristo e la croce erano dipinti con toni di colore caldi.

Con volto smunto, ma ansioso, cercava incessantemente lo sguardo dei passanti, la loro attenzione. Se uno, soltanto uno di loro lo avesse ascoltato, li avrebbe potuti salvare, li avrebbe svegliati, e li avrebbe condotti lontano da quel limbo in cui sognavano il nulla: non sarebbe rimasta pietra su pietra di quella città dormitorio che non sia diroccata.

Ma forse i passanti avevano paura del straniero, o forse soltanto non desideravano affatto esser salvati: ed il loro sguardo continuava ad abbracciare soltanto il terreno.

mercoledì 13 gennaio 2010

Non tentare il Signore Dio tuo

Spina Christi
11 - Non tentare il Signore Dio tuo

Una tela, come tante altre priva di cornici, alta 40 cm e lunga 70. I tratti decisi, quasi meccanici, ed i colori vivi- forse acrilici- rivelavano la modernità del quadro, forse d'un autore contemporaneo. Mi stupii di trovare un oggetto dei nostri tempi in questo luogo; eppure non era fonte di contrasto: pareva anzi essere il fratello più giovane degli altri quadri- sarà stata l'aria rinchiusa della chiesa a corroderlo d'antichità e santità.

Ad occupare l'intero quadro v'erano due seni, rosei, pieni e freschi - e la pelle era giovane, tesa, profumata, tentatrice. I seni erano coperti a malapena, poco sopra i capezzoli, da un vestito di un rosso appena scurito, illuminato da riflessi di seta, e bordato da un sottile pizzo che ne accentuava l'erotismo, tanto ingenuamente quanto efficacemente; ed il vestito, con la malizia propria di chi conosce la propria bellezza, stringeva e sollevava i seni, sì che nessun uomo sarebbe resistito a tale provocazione.

Dal collo, fuori dalla composizione, pendeva una catenina d'oro, sottile, come lagrime di luce intrecciate l'una all'altra dalle mani di una bambina - e dove i due raggi d'oro si incontravano, appena sotto lo sterno, v'era una croce, d'oro anch'essa, come un monile, sullo stile della croce detta del Golgota, ma più lavorata, più ornata, in modo di accrescerne l'eleganza e la leggerezza.

E sulla croce d'oro, piccolo, distante, sfumato, era crocefisso il Cristo: un Cristo in colori naturali, quasi vero.

Era come se sul petto della giovane donna morisse davvero il Salvatore.

Ma era piccolo, distante, e quasi sfumato: e in tanto contesto, chi si soffermerebbe a guardarlo?

martedì 12 gennaio 2010

Questo è il mio sangue

Spina Christi
10 - Questo è il mio sangue

Probabilmente questa composizione fu creata durante il rinascimento; le tempere in colori smorti, le terre pallide ed i verdi appassiti tracciavano sul quadro, alto circa 300 cm e largo 120, il paesaggio delle colline toscane, dove le città fortificate, assieme ai costumi delle genti, creavano un contrasto storico-geografico che solo in apparenza era anacronismo.

Su una di queste colline, la centrale e la più alta, sorgeva la croce, alta e sottile, e su essa un Cristo ugualmente esile, talmente bianco da confondersi con le nuvole del cielo retrostante, pallido come lo straccio che gli copriva il ventre.

Sopra di lui, dalle nuvole, una mano divina nel gesto di benedizione, con il pollice e l'indice e il medio protratti, spargeva una luce di oro sul figlio morente.

Eppure (e qui il rinascimentale si macchiava dello stile bizantino più intenso) dal costato del Crocefisso fuoriusciva un fiotto di sangue rosso, violento, forte; talmente rosso da tingere l'intera collina con l'amaranto del martirio. Nel rosso di quel colle - qui stava il contrasto più forte - eran disegnati, con tratti bianchi sottili ma vivi, schiere e schiere di diavoli. Su tutti, ne spiccavano sette per dimensione e imponenza: un'ingenua, ma efficace allegoria, dove tratti abnormi della fisionomia e parti del corpo animalesche ricordavano i peccati capitali. Gli altri erano più piccoli - certi minuscoli danzavano attorno ai loro condottieri, in una sorta di carnevale eterno dove nella stessa figura giacevano, in un letto di promiscuità, l'uomo, la bestia ed il divino.

Sotto, il sangue, a destra, un angelo, biondo, effeminato, dalle lunghe vesti azzurre, ed a sinistra un diavolo , nudo, cornuto e nero come la peste, reggevano un cartiglio in caratteri romani, in lingua latina: "Questo è il mio Sangue"

lunedì 11 gennaio 2010

Vipavski Stari Grad





Più di dieci anni fa, una domenica mattina, salimmo la collina sopra il paesino sloveno di Vipava, per visitare i resti del vecchio castello.
I ruderi sovrastavano la valle, come delle scheggie d'osso conficcate fra la vegetazione, torri di pietra possenti traforate dal vento dei secoli.
Sul sentiero trovammo una grotta con un inghiottitoio, sul fondo del quale ribolliva la corrente d'acqua del fondovalle, sangue arterioso delle forti montagne più a nord.

Salendo ulteriormente giungiemmo alle rovine; dopo una breve ispezione trovammo incisa sulla pietra d'angolo un simbolo: una coppa, come sospesa a mezz'aria, in mezzo a due angeli alati che ad essa protendevano le mani, senza toccarla.
Subito sotto era incisa una swastika- a giudicare da com'era consumata la pietra attorno all'incisione, pareva sia stata scolpita assieme alla coppa - probabilmente molto prima della seconda guerra mondiale, forse anche nel secolo passato.
Ripassammo le incisioni con un stecco annerito dal fuoco, ma ci dimenticammo - forse presi dalla stanchezza- di fotografarle.



Ieri - dieci anni più tardi - ritornammo alle stesse rovine, sopra lo stesso paese; pesanti nuvole grigie venivano di tanto in tanto trafitte da raggi di sole.
Dopo una bella camminata fra i boschi arrivammo al castello; rispetto a dieci anni fa non aveva più soltanto le mura interne e quelle esterne, ma si era aggiunto un altro giro di fortificazioni tutto attorno, anch'esse in rovina.
Cercammo l'iscrizione, e la trovammo, nello stesso punto di dieci anni fa; ma sorprendentemente l'iscrizione era cambiata!
La coppa era diventata uno scudo. Dapprima ci sembrò che sullo scudo vi fosse incisa una croce; ma ad un più attento esame il braccio superiore della croce si allargava a metà, formando un triangolo retto, i cui due lati terminavano negli angoli superiori dello scudo.
Sopra lo scudo c'erano due punte; più che una corona sembravano due denti, o due corna. Quel che doveva esser stato il gambo del calice era ormai un insieme incoerente di segni. Sotto lo scudo, alla sinistra, c'era un cerchio; sull'altro lato, alla stessa altezza, una croce.
Persino gli angeli erano spariti: era lo scudo stesso ad essere alato- ma le sue ali erano stilizzate, spigolose, taglienti - come due lame di coltello, o due elitre di cavalletta.
Non c'era la swastika, ma sopra lo scudo c'era scolpito un teschio, con le tibie incrociate - l'emblema della morte. Attorno allo scudo le lettere M e B - gli occhi e la bocca del teschio sembravano esser stati cancellati dalle intemperie.








Ripassammo le incisioni e le fotografammo, e decidemmo di tornare giù in paese.
Sulla strada del rientro, dentro i resti di quella che dev'essere stata una postazione di guardia esterna, trovammo una grossa pietra e la ribaltammo per controllare se avesse o meno iscrizioni; non ve ne trovammo alcuna, ma sotto la pietra c'era un lucido ed agile ragno nero, e una larva di cetonia, bianca e grassa.




I simboli sono di facile lettura, ed è nella natura dell'uomo che con l'età il ricettivo del calice si tramuti nella difesa di uno scudo; lo scudo protegge ciò che si ha, e il vecchio segno alchemico indicante i metalli inciso su esso è segno che questa difesa è di natura nobile, e non meschina.
Le stesse ali dello scudo rivolgono la loro minaccia verso l'esterno, come chi ha qualcosa di prezioso da proteggere (mentre era nella natura degli angeli di cercare, rivolti verso il calice!) - lo stesso si può dire della corona di denti/corni, emblema di quel potere che si risveglia nel capretto che in aprile diventa ariete.

E' inutile dilungarsi sui significati di cerchio e croce - ma è molto utile soffermarsi a meditare su essi.

Da principio mi aveva inquietato la scomparsa di quel simbolo di rinascita continua, circolare, ch'è la swastika, ed il comparire del teschio: ma grazie a Dio questo non ha nè occhi per vedere, nè bocca per divorare; le lettere M e B le leggo come Morte Buona, l'inverno della chiusura, che ha in sè la promessa della primavera - il sinonimo lineare della circolarità della croce solare.

Dieci anni fa nel calice della terra trovammo le acque profonde; ora sotto la pietra tombale della terra trovammo il ragno e la larva (e si noti quanto la cetonia, una volta adulta, assomigli al nostro scudo!): la tomba che la pietra proteggeva infatti era la terra stessa, una terra nera, grassa e fertile; a primavera la madre/ragno darà i suoi figli, e la larva diverrà un individuo adulto.
 
Entrare nel calice è come l'avvolgersi nella seta della crisalide; essere dietro lo scudo è come attendere lo schiudersi dell'uovo.

La notte

Spina Christi
9 - La notte

Una tela molto grande, alta 190 cm e larga pressappoco 3 metri e mezzo, dipinta in intensi colori ad olio, che il tempo non aveva ancora adombrato. Il cielo pareva quasi un drappo di seta d'una favola orientale; scendeva dal nero più cieco, intarsiato d'argento di stelle, fino al rosseggiare del tramonto, occupando praticamente l'intera superficie del quadro; fra questi due estremi trionfava il blu della notte, in tutte le sue sfumature, tempestato dalle lacrime bianche degli astri attorno alla via lattea e accarezzato da una luce di luna. Non si sarebbe riusciti a parlare davanti a questo quadro tanto era forte l’evocazione del silenzio che questi congiurava; non restava che annientarsi, perdersi in quell’armonia antichissima, e cancellare i propri confini, quasi a diventare infiniti ed eterni noi stessi.

In basso faceva da contrasto la terra, un orizzonte distante, bordato di un giallo rossastro ma acceso, come se dietro vi fosse nascosto il sole; non occupava tutta la parte inferiore del quadro, ma digradava sulla sinistra, lasciando il quarto sinistro al cielo: e pareva quasi di veder un isola, o la punta d’una montagna, in balia di un oceano più grande di lei, troppo grande per lei.

Il lembo di terra si ingrossava leggermente man mano che si proseguiva verso destra, fino a salire, sull’angolo, a formare una piccola collina, distante; non raggiungeva comunque in altezza che un decimo del quadro.

Sulla cima della collinetta, solo, dimenticato, v’era un crocefisso, e sul crocefisso un uomo che dicono sia stato un Dio, ma ora era morto.

Eppure si capiva che non era stato rapito dalla Morte, ma vi si era consegnato di sua volontà, molto prima di esser salito sulla croce; vi si era consegnato come si lascia andare un amante nelle braccia dell'amata. E se ora era lassù, su quell'altare proteso verso il Cielo, verso lo spazio vuoto, come un offerta della Terra alla Notte, se ora era lassù non era per morire, ma per consacrare il suo amore.

domenica 10 gennaio 2010

Il sepolcro

Spina Christi
8 - Il sepolcro

Una tempera su una sorta di pergamena, di medie dimensioni - un quadrato di circa 80 cm per lato.
All'apparenza era stata dipinta molto tempo fa - mi prese quasi il pensiero che si trattasse della pelle d'un vecchio santo, tesa dentro una cornice dorata (una delle poche ad avere qualche semplice decorazione).
Gran parte della superficie era coperta da una parete rocciosa, simile a quelle delle montagne della mia terra, priva di spaccature, solida ed inamovibile, con i spigoli arrotondati dal vento, priva di piante, di erba, di vita.
Il suolo, anch'esso della stessa pietra, era stato solcato da un sentiero scavato dai passi, un rivolo di cammini levigato dai millenni.
Questo sentiero portava ad un'enorme apertura nella roccia, un'apertura nera, antica; una bocca infernale, capace solo di inghiottire, sterile d'ogni parola che sia conforto, ma avida d'annientamento, una porta verso la morte.
Eppure ecco che in quel nero silenzioso, ottuso, si poteva scorgere la sagoma d'un nero più lucido, simile ad un carbonchio - su una pietra tombale, simile ad un'offerta sacrificale giaceva il corpo del Redentore; pareva come carbonizzato, ma sulla sua schiena, inarcata dall'ultimo spasmo, brillava un timido, tenue riflesso: una luce capace di sfuggire dalla gola della tomba.

sabato 9 gennaio 2010

Le donne sotto la croce

Spina Christi
7 - Le donne sotto la croce

Era una tela invecchiata male, con una modesta cornice dorata, larga pressappoco 70 cm ed alta 40, dipinta con lo stile realista del 1800, ma con certi giochi di luce che fanno andare il pensiero alle avanguardie del primo novecento.
Al centro v'era la croce - nera, sottile, spoglia, quasi un oggetto del pensiero; lo spettacolo della punizione è ormai terminato, e portati via i cadaveri, resta solo il risentimento di chi è rimasto.
Sotto la croce, bruciate dal dolore, le donne che avevano servito e seguito Gesù in vita: fra esse spiccavano per la luce del volto ed il rosso vivo delle vesti Maria di Maddalena, Maria madre di Jacopo e Giuseppe, la sorella di Maria Madre, detta anche di Cleofe, e la madre dei figli di Zebedeo, detta Salomè (i rispettivi nomi erano scritti in targhette sulla cornice ai piedi del quadro).
In disparte, sorretta da altre donne vestite d'un rosso più smorto, stava la madre del Cristo.
I rossi veli delle donne, agitati dal vento, ricordavano le fiamme d'un incendio nel vano tentativo di bruciare la croce; erano assieme ai volti delle donne l'unica luce ad illuminare i toni scuri del quadro, il cielo grigio e la terra morta. Bruciate dal dolore, si diceva- ma forse quel dolore non era che una facciata, una maschera per nascondere agli altri, ma soprattutto a sé stesse un sentimento più antico, più forte, più umano. Ecco che la Maddalena lasciava trasudare dal volto riarso l'ira per essere stata abbandonata in nome d'una dottrina astratta e distante; e nelle pieghe della bocca di Salomè affiorava il rancore per quell'uomo visionario che le aveva strappato i figli con la promessa di un regno, ed ora moriva della morte dei ladri.
E Maria di Cleofe, nell'angolo dello sguardo che abbracciava la sorella, non covava forse invidia per il destino della Deipara, ed al tempo stesso rabbia impotente per quel figlio che aveva gettato con le sue azioni irresponsabili la propria madre nel più nero degli abissi del dolore?
Soltanto dal volto di Maria Madre non dimorava l'ira- ma rassegnazione di fronte a quella Madre Divina, più antica, sacra, terribile - quella Madre Divina nella quale non si poteva far altro che dissolversi.
E forse tutte avevano capito, con quella sottigliezza ch'è delle donne, l'irraggiungibilità di quella rivale, quell'oggetto del pensiero, nero, sottile, spoglio.

venerdì 8 gennaio 2010

Dittico - Il Sonno e la Morte

Spina Christi
6 - Dittico - Il Sonno e la Morte

I due quadri - due tele dipinte ad olio, larghe 60 cm ed alte 130, la cui sommità terminava in un semicerchio, come a ricordare un arco a tutto sesto - erano congiunti tramite due cerniere di legno, simili ad un cardine; li si sarebbe potuti chiudere e trasportarli, come la custodia di un violoncello. Dietro i dipinti nessuna decorazione - soltanto un legno laccato, nero lucido, proteggeva le tele, ed a chiudere i quadri pareva di trovarsi di fronte a una piccola bara.
Ma una volta aperti, i lavori parevano piuttosto delle finestre, una bifora con vista su una strada nell'impero degli incubi dell'umanità.
In entrambi, il soggetto era il Cristo, crocefisso. In entrambi, il paesaggio era scarno, quasi non esistente, un terreno di ocre impastate coperto da un cielo nero, in cui altri neri tramavano assieme ai grigi volute circolari di fumo stantio.
Il Cristo, col medesimo volto, quasi colorato di viola e azzurro, teneva la testa alta, guardando con fare sicuro l'osservatore del quadro, impaziente di morire per poter trasmettere il suo messaggio. Ciò che distingueva un quadro dall'altro era la modalità della crocifissione, o, si potrebbe dire, il grado di morte raggiunto.
In quello di sinistra si poteva notare la forza, la vitalità delle braccia di Gesù, legate (e non inchiodate!) ai bracci della croce da più giri di corda, scemare, fino a svanire e farsi secchezza, aridità nel ventre; sotto lo straccio che gli copriva la vergogna, pendevano immote e bianche le ossa dello scheletro, disegnate con una gelida precisione anatomica.  Interessante notare come anche le gambe fossero legate, non da corde ma bensì da catene; una treccia di catene sottili, d'argento - tanto fini quanto infrangibili.
Il risultato cromatico era una sorte di ellisse polarizzata, i cui due fuochi erano rispettivamente la bocca e il pube del Salvatore, una dialettica fra logos e carne il cui discorso formava ed era composto dal corpo dell'uomo.
A fare da controcanto c'era la parte destra del dittico: il volto di Gesù pareva emergere dal legno; sotto, le fibre dei muscoli si irrigidivano fino a confondersi con la croce, ed i nodi di quest'ultima stringevano a tal punto la carne da divenire tutt'uno con essa. La croce lo aveva vinto, la morte lo aveva forse annullato, cancellando di lui ciò che lo differenziava dal resto del mondo?
Certamente, era quello che entrambi volevano. Ma anche in quell'ultimo attimo, e forse solo in quell'ultimo attimo, dalla bocca del cristo fioriva una fiammata, e dov'era un tempo la sua forza maschile brillava una macchia di sangue; entrambe forti dello stesso rosso, brillante, disperato, vivo. Così sul medesimo albero si sarebbero potuti cogliere i frutti dell'albero della scienza e dell'albero della vita, le luci d'oriente e d'occidente.
Così l'uomo che avesse fatto dei due l'Uno avrebbe messo fine al mondo, e fatto di sé il Regno.

giovedì 7 gennaio 2010

Piccola vita

Spina Christi 
5 - Piccola vita

Un olio su tela, altezza 55 cm. per 120 di lunghezza.
Con colori crudi e slavati era dipinto un antro, freddo ed ostile. Il soffitto era basso, e l'aria torbida, come imbevuta dell'odore della morte.
Nel mezzo di questo triste grigiore c'era un rialzo, una sorta di altare di pietra, lucido e levigato; su esso era posato un corpo coperto da un lenzuolo, disteso di lato rispetto all'osservatore, ad occupare la metà centrale della lunghezza del quadro. La freddezza della composizione faceva sembrare la stanza un obitorio moderno, quasi una sala chirurgica dopo un operazione non riuscita.
Il telo che copriva il cadavere era ormai marcio, contaminato e corrotto da quel contatto immondo, da quelle ossa ricoperte di carne morta che trapelavano di sotto. Eppure tanto marciume, segno di un abbandono di mesi, non era ripugnante alla vista: muffe avevano variegato il telo, come la prima erba spunta da un prato innevato; e le macchie di sangue e pus, sapientemente disposte dal pittore, parevano i primi fiori che dona la primavera.
E benché in calce al quadro vi fosse scritto, in stampatello maiuscolo, "il corpo di Gesù 50 giorni dopo la morte", l'anonimo pittore aveva fatto spuntare, a rischiarare di speranza la gelida caverna, un fiore proprio li dove doveva essere il cuore del morto, come se fosse nato dal cadavere e da questi nutrito. E quale resurrezione più gloriosa!

mercoledì 6 gennaio 2010

Per rinfrancar lo spirito tra un Gesù e l'altro

Il passo dei Vangeli in cui si dice "non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi" è un'interpolazione della Grande Chiesa, come l'intera storia del frutto della conoscenza.

Nessuno ormai sa che le perle non si fanno digerire dallo stomaco umido e grossolano dei suini; una volta ingerite queste rimangono invece al loro interno, agendo come veleno sottile, andando a trasformare la carne e gli organi del maiale stesso nel bianco splendore della perla.
Entro breve il veleno ha la meglio del maiale, ma la sua morte non lascia cadaveri: i pochi resti organici continuano infatti ad essere soggetti al processo di  perlificazione anche dopo il decesso!



Un porco perlifero

La corona

Spina Christi
4 - La corona

Il supporto era una tavola quadrata in legno scuro, quadrata, di circa 50 cm di lato, bordata con una sottile assicella del medesimo legno. Si leggeva fra le sue venature la polvere dei luoghi dimenticati.
L'intero sfondo era dipinto in un'uniforme vernice dorata; benché il tempo e la noncuranza avessero insinuato la screpolatura nell'oro, il contrasto fra il tratto del soggetto e la calma dello sfondo era ancora stupefacente, e ricordava l'alba che colora di sole i rami d'una foresta secca. Solo protagonista del quadro era la corona di spini, la corona di scherno che aveva cinto il capo del Re del Dolore.
Iscritto nel quadrato di legno, con un margine di pochi centimetri, un cerchio di rovi ricurvi, fissi, eterni, intrecciati ed immutabili. Nessuna sfumatura, nessun legame con la realtà, col mondo che chiamiamo nostro: pareva di assistere ad un trattato di teologia, ad un diagramma tracciato da Dio per spiegarsi a sé stesso - un'esposizione dei misteri dell'incarnazione in una calligrafia spigolosa ed incomprensibile, in una lingua inaccessibile agli uomini.
Chi, vedendo un tal peso, avrebbe il coraggio di caricarselo sulle spalle? Chi avrebbe nervi tanto saldi da sopravvivere al dolore di quell'attimo di infinita vita, di infinita coscienza, di infinita apertura e chiusura?
Chi sopporterebbe il freddo, chirurgico morso d'amore di quelle spine?

martedì 5 gennaio 2010

L'occhio con le mosche

Spina Christi
 3 - L'occhio con le mosche

Questo quadro era di dimensioni modeste, una tela di circa 20 cm di altezza per 30 di lunghezza, ed anch'esso era privo di cornice. V'era dipinto con poche pennellate, lisce ma vigorose di colori ad olio, l'occhio del nostro Signore.
L'occhio (nello specifico, l'occhio sinistro) occupava l'intera tela, e attorno v'era soltanto la pelle del viso, prossima a svanire, dissolta dalla luce.
Mi si chiederà: "come si può esser sicuri che l'occhio rappresentato sia proprio quello di Cristo?"
Ebbene, quell'occhio era un lago di paura, e nel caldo marrone dell'iride bruciavano le fiamme di tutti i peccati, con un intensità che solo un Dio svuotato della sua divinità può provare; era insomma un occhio d'uomo, anzi l'occhio dell'Uomo stesso.
Ci volle un considerevole sforzo di volontà per distogliere lo sguardo dalla pupilla: per infiniti istanti sembrò nutrirsi del mio sguardo, avido di confondersi con me, di possedere ogni mio respiro! Ancora oggi provo un brivido al solo ricordo, paura infinita ed un sordo rimpianto.
A far da contraltare al peso della pupilla, nell'angolo in basso a sinistra, in prossimità del lacrimatoio, passeggiava una mosca, nera e grassa come le fuliggine. Passeggiava, colorando di rosso l'occhio, rompendo i capillari come un suonatore d'arpa accarezza le corde; passeggiava come si passeggia sul corpo inanimato di un ghiacciaio.
Eppure l'occhio - benché vivo, benché mai così vivo - non riusciva a liberarsi dell'insidioso insetto. Pareva attenderlo, desiderarlo, d'un desiderio perverso, di contagio.

lunedì 4 gennaio 2010

Il figlio crocefisso sul padre

Spina Christi
2 - Il figlio crocefisso sul padre

Il dipinto, di grandi dimensioni (alto all'incirca 180 cm per 90 di larghezza) pareva eseguito con una tecnica simile all'affresco, quasi che la calce fosse stata strappata integra dal muro ed incollata su una base di vecchio e pesante legno scuro. Una modesta cornice dello stesso legno, quasi priva di decorazioni, stringeva il tutto, lenendo la precarietà dell'immagine.
Davanti ad uno scarno paesaggio collinare si stagliava la figura antica e possente di Geova, nella raffigurazione classica di anziano dai bianchi e lunghi capelli, e dalla barba ugualmente luminosa e fluente.
Teneva le braccia spalancate, la testa retta, lo sguardo alto, quasi arrogante, le gambe unite: nell'insieme il suo corpo veniva a formare l'immagine di una croce. L'ampia tonaca verde scuro, argentata da bianchi arabeschi, velava un corpo forte d'una muscolatura classica, statico e potente al tempo stesso, quasi immobile – marmo d'un tempio, e sacra quercia secolare.
Nei suoi occhi, nel suo sorriso, non si leggeva altro che vittoria.
Su quest'immane croce divina, debole, appeso al respiro come se ogni suo istante fosse l'ultimo, era Gesù: il figlio crocefisso sul padre.
Un sapiente gioco di colori negava alla vista ogni traccia di sofferenza fisica: niente sangue, niente corone di spini, niente piaghe: chiodi minuscoli, poco più di un puntino nero, legavano Gesù al Dio Padre.
Ma gli occhi del Cristo erano gli occhi di ogni uomo ed ogni donna che avesse mai sofferto, sulla sua bocca si soffocava il pianto di ogni bambino e il suo corpo, coperto da uno straccio, era solcato da tutte le privazioni che avevano condannato la storia dell'umanità.
Nessuna aureola cingeva il capo dei due: le loro opposte santità non avevano bisogno di esser sottolineate.
Sotto, al centro, in un cartiglio in minuscoli caratteri gotici in rosso scuro era scritto “Perché mi hai abbandonato?”

domenica 3 gennaio 2010

La mano

Spina Christi 
1  – La mano

Come la maggior parte dei quadri, era senza cornice; il supporto era in legno chiaro- lungo circa 30 cm. ed alto 20 - su di esso era stato incollato un cartoncino. I colori erano tenui, ormai ombre acquerellate dal tempo.
Vi si vedeva la mano del Cristo inchiodata sulla croce: magra, quasi secca, impregnata d'una vitalità giunta alla fine.
Al centro del palmo la testa del chiodo, quadrata, con gli angoli smussati e i lati convessi - soltanto pochissimo sangue sgorgava dalla ferita, formando un sottile anello che circondava il chiodo, senza colare.
Attorno al chiodo la mano non era né aperta né completamente chiusa; sembrava persa nel patetico ed impossibile sforzo di stringere il chiodo, quasi fosse indecisa fra il volerlo schiacciare o proteggerlo con gelosia.
Dietro la mano, e il breve tratto di polso visibile, il legno della croce pareva irto di schegge, segnato da pennellate orizzontali, ora chiare e ora scure, che agitavano la superficie mutandola nell'incubo di un morso spietato.
Sullo sfondo, dietro il legno della croce, una miriade di petali blu e viola, come sfumati in fiamme, portati da un freddo vento che seguiva il legno, davano all'intera composizione una luce dai colori dei lividi, ed un mancamento simile all'affogar nel vino.

sabato 2 gennaio 2010

Spina Christi (ovvero Un esperimento divino sul dolore)

Prologo

Erano ormai sette ore che camminavamo; quello che era un sentiero stentato si era pian piano perso in un intrico di sassi e rovi.
Davanti, molto davanti a me, camminava il custode, la mia guida: si voltava ogni tanto a guardarmi, e sembrava che fosse stato per lui quasi un sollievo se io mi fossi perso attardandomi addietro.
Arrivammo ch'era già iniziato il tramonto: il custode mi diede le chiavi e si sedette, caricando lentamente la pipa con un tabacco nero: non sarebbe entrato con me, sarei andato avanti solo.
La chiesa era piccola, più di quanto me l'aspettavo: una chiesa rurale, in pietra, con un campanile a vela ormai senza campane. Era appoggiata su una dorsale del monte priva di alberi e pareva dominare, non vista, la valle.
Mi era stato detto, in paese, che era ormai sconsacrata: in tempi non troppo passati v'era accaduto un terribile omicidio - un ragazzo era stato ucciso dal padre, proprio nel giorno della sua Prima Comunione.
Pugnalai con la pesante chiave la porta di legno secco; girai la chiave, e il chiavistello parve spezzarsi. La porta si aprì, e fui inghiottito dalla chiesa.
Accesi delle candele: la luce tremante faceva apparire lo spazio molto più grande di quello che prometteva l'esterno.
Quadri, quadri ovunque, quasi accavallati l'uno sull'altro alla parete - davano una vertigine sovraccarica, come le decorazioni di certe sinagoghe dell’est, schiacciate da millenni di preghiere.
Il custode mi aveva più volte ripetuto che i quadri datavano tutti all’anno zero; un semplice sguardo rivelava invece che erano stati dipinti in diverse epoche ed in diversi paesi, con le tecniche e gli stili più disparati.
Misi dell’incenso in un bruciatore, ed iniziai ad esaminare il primo quadro.