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mercoledì 15 aprile 2015
"Odiavamo il vecchio feudatario, e fummo noi a soffiare sul fuoco del rancore popolare, sperando che la chiassosa libertà portasse poi ad una giustizia più elevata. Ma poi abbiamo visto coi nostri stessi occhi il grossolano odio della rivolta contadina, la fame di distruzione fine a sè stessa, il cieco desiderio di rovesciare ogni cosa, livellando nello stesso pantano sia l'ingiustizia che la bellezza o le conquiste dello spirito.
Ah! La rivoluzione è il lusso della gioventù. L'esperienza degli anni toglie senza alcuna pietà la convinzione di essere nel giusto."
lunedì 10 novembre 2014
Amo la montagna, ma non con quella dedizione assidua che tanti sanno donarle. Spesso la abbandono, me ne dimentico per mesi, salvo poi magarli sognarla all'improvviso. Allora mi prende una smania di rivederla, di percorrerne di nuovo il corpo, di bere il suo silenzio. E' una passione ipocrita: gli amanti infedeli ripagano la loro superficialità esagerando la temperatura degli sporadici episodi d'affetto.
Ero arrivato poco oltre Venzone, e avevo parcheggiato la macchina sul finire della strada che si inoltra nella val Venzonassa. C'erano nuvole nel cielo, nuvole brutte, quelle che ti minacciano come lupi: stai entrando nel nostro territorio, torna indietro, o saranno guai.
Ma era la mia domenica, la domenica in cui avevo voglia della montagna, e benchè i segni fossero palesi, scelsi di ignorarli: l'amore è cieco. Presi lo zaino ed iniziai a risalire il sentiero, tornante dopo tornante, oltre il bosco, e poi tagliando attraverso i pascoli, fino alle radici della montagna, dove la roccia si stacca dalla terra, gridando verso il cielo. Allora iniziò a piovere, ma io, come un folle, continuai a salire, arrampicandomi fra i massi accatastati alla rinfusa d'un canalone che tagliava la montagna fin quasi a lambirne la cima.
Ben presto la minaccia si mutò in violenza concreta, ed iniziarono a cadere grosse e nere gocce di pioggia, sputate con rancore; pochi secondi dopo il cielo si spezzò, e la pioggia divenne una rumorosa valanga d'acqua, un peso che schiacciava al suolo. Mi accorsi che assieme all'acqua ed ai fulmini ora cadevano anche rocce, come se le nuvole le stessero staccando dalle pareti, per scagliarle contro di me. Cercai di proteggermi la testa con le mani, pur sapendo quanto un simile scudo fosse inutile contro una forza così pesante. Fu allora che notai che anche le pietre sul suolo avevano iniziato a muoversi. In genere non lo fanno quando c'è un uomo che le guarda, ma evidentemente mi davano già per spacciato, e non avevano più alcun riguardo per la mia presenza: i morti non possono svelare segreti.
La gravità non c'entrava nulla, le rocce si muovevano di loro volontà. Nessuno mi ha creduto; anche negli occhi di coloro che fingevano di ascoltarmi riuscivo a scorgere l'ombra della derisione. "Avrai battuto la testa, o ti sarà scoppiato un fulmine vicino."
Ma invece non c'è niente di strano: l'ho capito solo dopo averlo visto, ma a pensarci bene è una cosa naturale. Quando un cacciatore sorprende la volpe, questa può trasformarsi in un tronco, o in un mucchio di foglie secche. Il topo si muta in un sassolino per sfuggire allo sguardo vorace del falco, e la cincia si fa simile alla corteccia, svanendo nel tronco dell'albero. In autunno ho persino visto usignoli volare imitando la caduta di una foglia secca dal ramo. Quando viene sorpresa dallo sguardo, insomma, la vita si ferma e finge d'essere inanimata. Quando camminiamo in un bosco, chissà quanti animali incrociamo senza accorgercene, perchè sono travestiti da sassi, funghi o radici!
Le rocce si muovevano, e mi guardavano. Non avevano occhi, ma macchie scure, eppure capivano che mi stavano osservando, e pure con una certa curiosità. Le sentii anche parlare fra loro, ma non capii cosa dicevano, perchè il loro linguaggio è fatto di suoni secchi e duri, come un vecchio che tosse.
Parlavano e si muovevano in tutta tranquillità, perchè sapevano che quelli erano i miei ultimi minuti: presto una loro compagna mi sarebbe saltata addosso dalle sponde della cima, e di me non sarebbe allora rimasta che una macchia rossa fra quegli angoli grigi.
Ma le ho fregate, la mia buona sorte ha sconfitto la collera della montagna. Non mi ricordo i dettagli: forse camminando o forse cadendo, ma in qualche modo sono arrivato quasi fino alla valle. Lì un elicottero della protezione civile mi ha raccolto, e mi sono risvegliato tre giorni dopo, nell'ospedale di Gemona. Niente di grave: qualche escoriazione, e una distorsione alla caviglia. Un prezzo leggero, se confrontato al mistero che ho potuto osservare: non capita a tutti di veder vivere la montagna, e di sopravvivere per raccontarlo.
Ero arrivato poco oltre Venzone, e avevo parcheggiato la macchina sul finire della strada che si inoltra nella val Venzonassa. C'erano nuvole nel cielo, nuvole brutte, quelle che ti minacciano come lupi: stai entrando nel nostro territorio, torna indietro, o saranno guai.
Ma era la mia domenica, la domenica in cui avevo voglia della montagna, e benchè i segni fossero palesi, scelsi di ignorarli: l'amore è cieco. Presi lo zaino ed iniziai a risalire il sentiero, tornante dopo tornante, oltre il bosco, e poi tagliando attraverso i pascoli, fino alle radici della montagna, dove la roccia si stacca dalla terra, gridando verso il cielo. Allora iniziò a piovere, ma io, come un folle, continuai a salire, arrampicandomi fra i massi accatastati alla rinfusa d'un canalone che tagliava la montagna fin quasi a lambirne la cima.
Ben presto la minaccia si mutò in violenza concreta, ed iniziarono a cadere grosse e nere gocce di pioggia, sputate con rancore; pochi secondi dopo il cielo si spezzò, e la pioggia divenne una rumorosa valanga d'acqua, un peso che schiacciava al suolo. Mi accorsi che assieme all'acqua ed ai fulmini ora cadevano anche rocce, come se le nuvole le stessero staccando dalle pareti, per scagliarle contro di me. Cercai di proteggermi la testa con le mani, pur sapendo quanto un simile scudo fosse inutile contro una forza così pesante. Fu allora che notai che anche le pietre sul suolo avevano iniziato a muoversi. In genere non lo fanno quando c'è un uomo che le guarda, ma evidentemente mi davano già per spacciato, e non avevano più alcun riguardo per la mia presenza: i morti non possono svelare segreti.
La gravità non c'entrava nulla, le rocce si muovevano di loro volontà. Nessuno mi ha creduto; anche negli occhi di coloro che fingevano di ascoltarmi riuscivo a scorgere l'ombra della derisione. "Avrai battuto la testa, o ti sarà scoppiato un fulmine vicino."
Ma invece non c'è niente di strano: l'ho capito solo dopo averlo visto, ma a pensarci bene è una cosa naturale. Quando un cacciatore sorprende la volpe, questa può trasformarsi in un tronco, o in un mucchio di foglie secche. Il topo si muta in un sassolino per sfuggire allo sguardo vorace del falco, e la cincia si fa simile alla corteccia, svanendo nel tronco dell'albero. In autunno ho persino visto usignoli volare imitando la caduta di una foglia secca dal ramo. Quando viene sorpresa dallo sguardo, insomma, la vita si ferma e finge d'essere inanimata. Quando camminiamo in un bosco, chissà quanti animali incrociamo senza accorgercene, perchè sono travestiti da sassi, funghi o radici!
Le rocce si muovevano, e mi guardavano. Non avevano occhi, ma macchie scure, eppure capivano che mi stavano osservando, e pure con una certa curiosità. Le sentii anche parlare fra loro, ma non capii cosa dicevano, perchè il loro linguaggio è fatto di suoni secchi e duri, come un vecchio che tosse.
Parlavano e si muovevano in tutta tranquillità, perchè sapevano che quelli erano i miei ultimi minuti: presto una loro compagna mi sarebbe saltata addosso dalle sponde della cima, e di me non sarebbe allora rimasta che una macchia rossa fra quegli angoli grigi.
Ma le ho fregate, la mia buona sorte ha sconfitto la collera della montagna. Non mi ricordo i dettagli: forse camminando o forse cadendo, ma in qualche modo sono arrivato quasi fino alla valle. Lì un elicottero della protezione civile mi ha raccolto, e mi sono risvegliato tre giorni dopo, nell'ospedale di Gemona. Niente di grave: qualche escoriazione, e una distorsione alla caviglia. Un prezzo leggero, se confrontato al mistero che ho potuto osservare: non capita a tutti di veder vivere la montagna, e di sopravvivere per raccontarlo.
venerdì 10 ottobre 2014
Sono tornato, dopo anni, nella cantina dei miei nonni - un luogo dove i sogni dormono, sepolti dalla polvere. C'è un mucchio di riviste di ormai vent'anni fa, legate assieme per annata; a fianco una cassetta degli attrezzi giace rovesciata, e ha riversato accanto a sè un rigagnolo di chiavi e cacciaviti. E poi, più in fondo, la grande damigiana; la paglia che fasciava la sua pancia è ormai marcita, ma il vetro nudo è verde e luminoso, come se fosse un mappamondo di acqua e di cristallo.
Poggiata allo scaffale, ormai mangiata dalla ruggine, la vecchia moto Guzzi: quanti chilometri han conosciuto le sue ruote, e quanti viaggi, quando l'asfalto qui in campagna era soltanto un lusso? Appesa alla parete la ruota d'una bici, e un vecchio quadro in cui la muffa ha fatto il nido; mobili vecchi, sedie accatastate, sacchi su sacchi di vestiti mangiati dalle tarme: è come il libro di una vita intera, in cui il tempo, con forza d'uragano, ha mescolato pagine gettando alla rinfusa i giorni e gli anni.
Mi accorgo che non vedo il pavimento, tanto è coperto da tutti questi oggetti; mi chiedo allora se lì sotto ci sia un fondo, o se con il passare delle generazioni questa cantina sia diventata un pozzo, una miniera verticale in cui si è accumulata la storia dei miei avi. Scavo con le mani: una pagella di quando il mio bisnonno era alle elementari, ed un coltello da cucina, forse in argento, ma ormai tutto annerito. Scendo, scavo ancora, come una galleria dentro ai ricordi. Man mano che mi calo, però, noto che la memoria si rende più confusa, quasi stesse cedendo alle promesse dell'immaginazione. Trovo una vanga, di un avo contadino, di cui si è perso il nome; ma anche un bottone in oro, forse di una divisa militare, chissà di quale secolo, chissà di quale guerra. E ancora, un esile rosario, avvolto attorno a un telo bianco, sottile e delicato, ed una pergamena, in cui l'inchiostro è impallidito, trasfigurando la scrittura in una nenia arcana di suoni sussurrati. E lì? La lama d'una sciabola? Ed oltre ancora, cos'è che brilla di luce rossa e cupa? Forse un rubino, o un pezzo di corallo?
Ormai sono sommerso, seppellito: il peso di tanta eredità mi grava sulle spalle, mi soffoca il respiro. Cerco di risalire, ma sento la memoria che trascina, mi chiama nell'abisso: la storia è diventata un vortice affamato. Solo a fatica, nuotando a perdifiato, riesco a riguadagnare l'aria aperta.
Esco dalla cantina, ma prima di richiudere la porta alle mie spalle mi volto ancora, un ultimo rimpianto, verso l'indietro, lì, verso il passato. Soltanto ciò che vive resta a galla: perdersi nei ricordi è il privilegio di chi già vede oltre l'ultima soglia. Ma è un canto di sirena, subdolo e tentatore: sia benedetta allora quella polvere, che copre lievemente tutto quanto, e chiude nel silenzio la memoria, come la neve che d'inverno dimentica la terra.
Poggiata allo scaffale, ormai mangiata dalla ruggine, la vecchia moto Guzzi: quanti chilometri han conosciuto le sue ruote, e quanti viaggi, quando l'asfalto qui in campagna era soltanto un lusso? Appesa alla parete la ruota d'una bici, e un vecchio quadro in cui la muffa ha fatto il nido; mobili vecchi, sedie accatastate, sacchi su sacchi di vestiti mangiati dalle tarme: è come il libro di una vita intera, in cui il tempo, con forza d'uragano, ha mescolato pagine gettando alla rinfusa i giorni e gli anni.
Mi accorgo che non vedo il pavimento, tanto è coperto da tutti questi oggetti; mi chiedo allora se lì sotto ci sia un fondo, o se con il passare delle generazioni questa cantina sia diventata un pozzo, una miniera verticale in cui si è accumulata la storia dei miei avi. Scavo con le mani: una pagella di quando il mio bisnonno era alle elementari, ed un coltello da cucina, forse in argento, ma ormai tutto annerito. Scendo, scavo ancora, come una galleria dentro ai ricordi. Man mano che mi calo, però, noto che la memoria si rende più confusa, quasi stesse cedendo alle promesse dell'immaginazione. Trovo una vanga, di un avo contadino, di cui si è perso il nome; ma anche un bottone in oro, forse di una divisa militare, chissà di quale secolo, chissà di quale guerra. E ancora, un esile rosario, avvolto attorno a un telo bianco, sottile e delicato, ed una pergamena, in cui l'inchiostro è impallidito, trasfigurando la scrittura in una nenia arcana di suoni sussurrati. E lì? La lama d'una sciabola? Ed oltre ancora, cos'è che brilla di luce rossa e cupa? Forse un rubino, o un pezzo di corallo?
Ormai sono sommerso, seppellito: il peso di tanta eredità mi grava sulle spalle, mi soffoca il respiro. Cerco di risalire, ma sento la memoria che trascina, mi chiama nell'abisso: la storia è diventata un vortice affamato. Solo a fatica, nuotando a perdifiato, riesco a riguadagnare l'aria aperta.
Esco dalla cantina, ma prima di richiudere la porta alle mie spalle mi volto ancora, un ultimo rimpianto, verso l'indietro, lì, verso il passato. Soltanto ciò che vive resta a galla: perdersi nei ricordi è il privilegio di chi già vede oltre l'ultima soglia. Ma è un canto di sirena, subdolo e tentatore: sia benedetta allora quella polvere, che copre lievemente tutto quanto, e chiude nel silenzio la memoria, come la neve che d'inverno dimentica la terra.
domenica 29 giugno 2014
Luci cadute
La fiamma è la lingua che pronuncia la nostalgia che la brace ha del cielo.
La serpe di fumo che nasce dal cuore del fuoco si avvolge strisciando attorno alla notte, salendo in silenzio, pregando con ansia: è come un bambino che spera di prendere le stelle allungando le mani.
martedì 15 aprile 2014
La bomba ha la stessa forma d'un anfora:
goccia dopo goccia, l'uomo vi ha raccolto
tutta la sua collera, tutta la sua follia.
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venerdì 27 settembre 2013
Anèlito
Vidi un uomo, immerso nell'oscurità, come se fosse sotto terra. Vedevo l'intreccio delle sue vene, le arterie che si gettavano come ponti attraverso il corpo, ed i singoli capillari avviluppati come una fittissima ragnatela. L'intero sistema circolatorio formava un complesso simile alle radici d'un albero. E dove la testa terminava, partivano verso l'alto una serie di grosse arterie, avvolte a spirale l'una sull'altra, come a formare il tronco vivo di quello stesso albero, ed i rami ed i ramoscelli erano di vene della stessa forma e dello stesso colore di quelle del corpo sottostante.
Nel corpo inferiore pulsava un cuore rosso ed oscuro, che riceveva l'oscurità circostante, e la spingeva in circolo, affinchè si purificasse. Il corpo la mutava in una linfa dolce, un'acqua in cui era disciolta la luce vivente; il cuore quindi la raccoglieva nuovamente in sè, per poi inviarla verso l'alto. In corrispondenza al cuore inferiore, nei rami dell'albero superiore brillava un cuore di luce, come se fosse fatto di oro spirituale, l'oro di Ophir.
E' la terra a spingere verso l'alto il fiore, o è il sole a chiamarlo a sè?
lunedì 1 luglio 2013
Due preghiere
L'incensiere
Il suo corpo era avvolto da un velo di seta bianca. Era talmente fino che in alcune pieghe lasciava intravvedere il suo corpo, completamente nudo. Non era nè volgare nè provocante. La sua era una bellezza troppo profonda: semmai, era una vista dolce e commovente, come un'opera d'arte, o un'antica reliquia. Così, inginocchiata ed assorta, pareva una sposa, e su di lei quel bianco lenzuolo diveniva più prezioso del più ornato degli abiti nuziali.
La testa era reclinata, nascosta sotto il candido manto, ripiegato ed avvolto come se fosse un cappuccio. Le sue labbra erano nascoste, ma si capiva che si muovevano lungo le sillabe d'una preghiera. Le mani uscivano dal velo come due germogli di bucaneve dopo l'inverno. Erano congiunte, si sfioravano appena, con un gesto di fragilissima delicatezza. I suoni della sua preghiera si raccoglievano nell'incavo fra i palmi, e lì riecheggiavano, come se esitassero dentro un vaso di cristallo. Ne usciva un fumo di luce azzurra, che tracciava un'indecifrabile danza di curve nell'aria prima di salire e dissolversi.
Il rosario
Il legno d'abete scoppiettava nel focolare in pietra, riempiendo la stanza d'un profumo a metà fra l'incenso delle chiese ed il fumo dell'inferno. S'era fatto buio già da un po', e quella delle fiamme era l'unica fonte di luce dell'intera stanza. I vecchi travi in legno del soffitto erano già scomparsi nell'oscurità; sul suo volto invece si rifletteva il calore del fuoco, che colorava d'oro la sua barba ispida ed incolta, e la pelle del suo volto, inciso dalle rughe come un vecchio manoscritto.
Da un po' di tempo stringeva nel pugno un seme di miglio. Lo sguardo era concentrato sulla mano, ma non si sarebbe potuto indovinare i suoi pensieri, e nemmeno se stesse davvero pensando a qualcosa.
Da un po' di tempo stringeva nel pugno un seme di miglio. Lo sguardo era concentrato sulla mano, ma non si sarebbe potuto indovinare i suoi pensieri, e nemmeno se stesse davvero pensando a qualcosa.
Terminò tutto ad un tratto, come se avesse inteso un segnale che a me era sfuggito. Allora aprì la mano, e gettò il seme di miglio fra le fiamme: sparì velocemente, con un sommesso crepitio, appena percettibile.
Lui nel frattempo s'era chinato, facendo cigolare le assi del pavimento. Raccolse un nuovo seme di miglio, da un sacchetto posato accanto alla sedia; lo strinse nel pugno, e cominciò a fissarlo, come aveva fatto per quello precedente, con uno sguardo perso e profondo, pensieroso ed assente.
Lui nel frattempo s'era chinato, facendo cigolare le assi del pavimento. Raccolse un nuovo seme di miglio, da un sacchetto posato accanto alla sedia; lo strinse nel pugno, e cominciò a fissarlo, come aveva fatto per quello precedente, con uno sguardo perso e profondo, pensieroso ed assente.
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lunedì 17 dicembre 2012
I fulmini sul corpo d'Europa
Per possedere Europa, Zeus aveva preso le sembianze di un toro bianco, ma lei gli resistette. Zeus infine si tramutò in aquila, e sotto questa forma violentò Europa.
Il toro sa essere forte e fiero, ma le fiamme del suo temperamento sono tenute a bada dall'essere vicino alla terra. E' la terra a renderlo mansueto: il toro la ama, e in cambio lei le dona la pace, quella pace piena che non è semplice armistizio, ma il dolce silenzio che segue l'appagamento delle brame.
Il toro sa essere forte e fiero, ma le fiamme del suo temperamento sono tenute a bada dall'essere vicino alla terra. E' la terra a renderlo mansueto: il toro la ama, e in cambio lei le dona la pace, quella pace piena che non è semplice armistizio, ma il dolce silenzio che segue l'appagamento delle brame.
L'aquila invece è insaziabile, è posseduta da una voracità crudele ed irrefrenabile, proprio perchè se ne sta nei cieli più alti e distanti. L'aquila sceglie le sue prede con fredda precisione, e piomba loro addosso con la freddezza chirurgica di un calcolo che non ammette errore.
La nobiltà del toro sta proprio nell'umiltà, quell'umiltà che manca alla sprezzante e superba aquila. Ma - crudelta del destino! - è proprio questa mancanza a decretare la vittoria dell'aquila e a far soccombere il toro.
Alla fine, Europa non si concede al toro, ma cede alla forza dell'aquila.
Alla fine, Europa non si concede al toro, ma cede alla forza dell'aquila.
Quante volte ancora dovrà avverarsi questa profezia? Quante aquile hanno posseduto con la forza Europa, e quante ancora violenteranno il suo corpo?
martedì 2 ottobre 2012
Il contrabbandiere di libero arbitrio
Solo Dio, in quanto causa prima, è veramente libero; tutto il resto del creato sottostà al suo volere, per gradazioni sempre più stringenti man mano che ci si allontana da Lui.
Fra il Trono in cui Dio risiede e la terra in cui abitano gli uomini ci sono sette cieli, attraversando i quali la parola d’amore di Dio diviene progressivamente un ferreo ed immutabile ordine.
Il primo cielo è la Libertà, su cui poggia il Trono divino; il secondo cielo è la Volontà, il terzo l’Azione, il quarto la Regola, il quinto ed il sesto rispettivamente la Causa e l’Effetto; l’ultimo, che giunge a toccare la terra, è il Determinismo.
Gli atti, i pensieri e le speranze degli uomini sono dunque vani: già prima dell’eternità Dio ha prestabilito per ognuno di essi il corso della loro vita, ed anche la loro destinazione e ricompensa nell’aldilà.
Ma ci sono alcuni uomini che nonostante i rischi ed i pericoli riescono ogni giorno a contrabbandare piccole quantità di libero arbitrio. E’ rischioso: se venissero presi sul fatto, chissà in quali tremende punizioni divine potrebbero incorrere!
Non è certo facile aggirare tutti le dogane dei sette cieli, ma non è neanche impossibile. La Volontà è assorbita in sì stessa, e non bada per nulla agli altri, mentre l’Azione non ha mai tempo a sufficienza per indagare ciò che non la riguarda. Le regole sono come le maglie d’una rete: bloccano ed invischiano, ma se si è sufficientemente piccoli ed agili si può riuscire a sgattaiolare fra i buchi lasciati fra una e l’altra. Così, sapendo già la finalità che si vuole ottenere, si può creare ad arte le cause necessarie per raggiungerle.
Così questi contrabbandieri riescono a portare agli uomini alcune briciole di libero arbitrio, che di diritto spetterebbe solo a Dio. Non lo fanno certo per denaro: i guadagni sono molto scarsi, specialmente se paragonati ai rischi e alla fatica. Forse lo fanno per passione, o per senso del dovere, chissà. Forse le loro azioni rispondono ad un comando divino, a loro stessa insaputa; forse Dio li usa come dei mezzi inconsapevoli, per far gustare all’uomo il dolce e crudele peso della Libertà.
Fra il Trono in cui Dio risiede e la terra in cui abitano gli uomini ci sono sette cieli, attraversando i quali la parola d’amore di Dio diviene progressivamente un ferreo ed immutabile ordine.
Il primo cielo è la Libertà, su cui poggia il Trono divino; il secondo cielo è la Volontà, il terzo l’Azione, il quarto la Regola, il quinto ed il sesto rispettivamente la Causa e l’Effetto; l’ultimo, che giunge a toccare la terra, è il Determinismo.
Gli atti, i pensieri e le speranze degli uomini sono dunque vani: già prima dell’eternità Dio ha prestabilito per ognuno di essi il corso della loro vita, ed anche la loro destinazione e ricompensa nell’aldilà.
Ma ci sono alcuni uomini che nonostante i rischi ed i pericoli riescono ogni giorno a contrabbandare piccole quantità di libero arbitrio. E’ rischioso: se venissero presi sul fatto, chissà in quali tremende punizioni divine potrebbero incorrere!
Non è certo facile aggirare tutti le dogane dei sette cieli, ma non è neanche impossibile. La Volontà è assorbita in sì stessa, e non bada per nulla agli altri, mentre l’Azione non ha mai tempo a sufficienza per indagare ciò che non la riguarda. Le regole sono come le maglie d’una rete: bloccano ed invischiano, ma se si è sufficientemente piccoli ed agili si può riuscire a sgattaiolare fra i buchi lasciati fra una e l’altra. Così, sapendo già la finalità che si vuole ottenere, si può creare ad arte le cause necessarie per raggiungerle.
Così questi contrabbandieri riescono a portare agli uomini alcune briciole di libero arbitrio, che di diritto spetterebbe solo a Dio. Non lo fanno certo per denaro: i guadagni sono molto scarsi, specialmente se paragonati ai rischi e alla fatica. Forse lo fanno per passione, o per senso del dovere, chissà. Forse le loro azioni rispondono ad un comando divino, a loro stessa insaputa; forse Dio li usa come dei mezzi inconsapevoli, per far gustare all’uomo il dolce e crudele peso della Libertà.
giovedì 6 settembre 2012
Il labirinto invisibile
Come mai il fulmine non corre in linea retta, nella sua corsa fra cielo e terra?
Quali ostacoli, a noi invisibili, deve aggirare? Chi è stato a tracciare i contorti sentieri che egli è costretto a seguire?
La linea piegata e ripiegata del fulmine ricorda il corso d’un fiume visto dall’alto. E’ la forma delle valli a dettare il corso d’un fiume, e le sue anse sono deviazioni di fronte a rocce e montagne.
Forse anche il fulmine incontra valli e montagne nell’aria, a noi impercettibili, eppur tangibili al punto tale da riuscire a deviare la sua impetuosa forza! Che misteri ci nasconde la geografia dell’aria? Forse lo sa la mosca, che vola in traiettorie strane ed annodate. Se le guardiamo ci paiono insensate, ma forse gli occhi della mosca conoscono nell’aria strade di cui la vista per noi resta preclusa.
Quali ostacoli, a noi invisibili, deve aggirare? Chi è stato a tracciare i contorti sentieri che egli è costretto a seguire?
La linea piegata e ripiegata del fulmine ricorda il corso d’un fiume visto dall’alto. E’ la forma delle valli a dettare il corso d’un fiume, e le sue anse sono deviazioni di fronte a rocce e montagne.
Forse anche il fulmine incontra valli e montagne nell’aria, a noi impercettibili, eppur tangibili al punto tale da riuscire a deviare la sua impetuosa forza! Che misteri ci nasconde la geografia dell’aria? Forse lo sa la mosca, che vola in traiettorie strane ed annodate. Se le guardiamo ci paiono insensate, ma forse gli occhi della mosca conoscono nell’aria strade di cui la vista per noi resta preclusa.
Mulino di preghiera
La valle era stretta, e la città era incastonata sul fianco della montagna, proprio a ridosso di una ripida balza che si ergeva minacciosa sopra i tetti delle case, correndo quasi in verticale fino alle cime lontane.
Le vie che solcavano il paese erano strette e mal illuminate; si sentiva in lontananza il rumore di un fiume, una corsa impetuosa che riempiva l’aria di umidità. Ora che era scesa la notte, pareva quasi di essere all’interno d’una gigantesca grotta.
Arrivai alla piazza attirato dalla luce dei fari, sperando di trovare un locale aperto, o anche solo di incontrare qualcuno per strada; ma trovai soltanto una superficie deserta, e l’immensa cattedrale, silenziosa ed illuminata a giorno dalle spietate luci elettriche dei riflettori.
La facciata era in stile gotico, slanciata e leggera nonostante fosse realizzata con le scure rocce grigie della valle. I fari che la bombardavano dal basso verso l’alto contribuivano a renderla ancora più verticale, come se quella fosse stata l’unica dimensione degna di nota.
Fra i contrafforti laterali prendevano lo slancio due enormi torri, che incorniciavano simmetricamente la chiesa, come se ne fossero stati i guardiani. Non si trattava però di campanili, ma di due altissime ciminiere.
Sbuffavano fumo incessantemente e copiosamente. La luce sfiorava il fumo rendendolo concreto, come una panna montata grigia, scura e pesante sospesa nel cielo, in qualche modo precario ed insicuro.
Guardai il rosone della chiesa: era un’enorme ruota dentata, che girava in senso antiorario, muovendo in senso opposto un’altra ruota al suo interno.
La porta della cattedrale era socchiusa, e lasciava trapelare una tiepida luce rossa, ed un mormorio confuso, che continuò imperterrito anche quando entrai.
All’interno non c’erano nè banchi, nè statue, nè altari. Al centro campeggiavano soltanto le possenti colonne portanti della struttura. Le pareti invece erano gremite di persone, inginocchiate ed in preghiera. Ce n’erano tantissimi, uomini e donne di ogni età, accatastati l’uno di fianco all’altro.
Provai a parlare con uno di loro, ma continuò a pregare come se non mi avesse nemmeno sentito. Provai con un altro, ed un altro ancora, provai anche a scuoterli e a colpirli, ma non ottenni nessuna reazione. Pregavano senza interrompersi, come in una sorta di trance.
Sgranavano con le mani una sorta di rosario; ma a ben guardare da ognuno di quei rosari pendeva un cavo, una sorta di filo elettrico. Tutti quei fili correvano sul pavimento, e ogni tanto si allacciavano fra loro, per poi confluire in tubazioni di plastica. Alcuni di questi tubi sparivano sul pavimento, altri raggiungevano le colonne, per poi risalirle. Si capiva che i cavi ed i tubi non erano disposti a caso; nel complesso davano l’impressione di un enorme circuito elettrico.
Le preghiere di quella gente erano la forza primaria di un enorme processo industriale e religioso! Una forza trasformativa immensa e potentissima.
Senza dubbio le preghiere erano collegate con le caldaie che alimentavano le ciminiere. Ma qual era la materia prima, su cosa si applicava quella misteriosa lavorazione?
Non feci domande, tanto non mi avrebbe risposto nessuno. Tornai fuori, nella notte, lontano dalle luci elettriche.
Cercai di arrivare a quel fiume impetuoso, di cui prima avevo sentito soltanto il rumore, ma non riuscii a trovarlo; forse quel ruggito non proveniva da un corso d’acqua, ma era soltanto l’eco delle preghiere.
Le vie che solcavano il paese erano strette e mal illuminate; si sentiva in lontananza il rumore di un fiume, una corsa impetuosa che riempiva l’aria di umidità. Ora che era scesa la notte, pareva quasi di essere all’interno d’una gigantesca grotta.
Arrivai alla piazza attirato dalla luce dei fari, sperando di trovare un locale aperto, o anche solo di incontrare qualcuno per strada; ma trovai soltanto una superficie deserta, e l’immensa cattedrale, silenziosa ed illuminata a giorno dalle spietate luci elettriche dei riflettori.
La facciata era in stile gotico, slanciata e leggera nonostante fosse realizzata con le scure rocce grigie della valle. I fari che la bombardavano dal basso verso l’alto contribuivano a renderla ancora più verticale, come se quella fosse stata l’unica dimensione degna di nota.
Fra i contrafforti laterali prendevano lo slancio due enormi torri, che incorniciavano simmetricamente la chiesa, come se ne fossero stati i guardiani. Non si trattava però di campanili, ma di due altissime ciminiere.
Sbuffavano fumo incessantemente e copiosamente. La luce sfiorava il fumo rendendolo concreto, come una panna montata grigia, scura e pesante sospesa nel cielo, in qualche modo precario ed insicuro.
Guardai il rosone della chiesa: era un’enorme ruota dentata, che girava in senso antiorario, muovendo in senso opposto un’altra ruota al suo interno.
La porta della cattedrale era socchiusa, e lasciava trapelare una tiepida luce rossa, ed un mormorio confuso, che continuò imperterrito anche quando entrai.
All’interno non c’erano nè banchi, nè statue, nè altari. Al centro campeggiavano soltanto le possenti colonne portanti della struttura. Le pareti invece erano gremite di persone, inginocchiate ed in preghiera. Ce n’erano tantissimi, uomini e donne di ogni età, accatastati l’uno di fianco all’altro.
Provai a parlare con uno di loro, ma continuò a pregare come se non mi avesse nemmeno sentito. Provai con un altro, ed un altro ancora, provai anche a scuoterli e a colpirli, ma non ottenni nessuna reazione. Pregavano senza interrompersi, come in una sorta di trance.
Sgranavano con le mani una sorta di rosario; ma a ben guardare da ognuno di quei rosari pendeva un cavo, una sorta di filo elettrico. Tutti quei fili correvano sul pavimento, e ogni tanto si allacciavano fra loro, per poi confluire in tubazioni di plastica. Alcuni di questi tubi sparivano sul pavimento, altri raggiungevano le colonne, per poi risalirle. Si capiva che i cavi ed i tubi non erano disposti a caso; nel complesso davano l’impressione di un enorme circuito elettrico.
Le preghiere di quella gente erano la forza primaria di un enorme processo industriale e religioso! Una forza trasformativa immensa e potentissima.
Senza dubbio le preghiere erano collegate con le caldaie che alimentavano le ciminiere. Ma qual era la materia prima, su cosa si applicava quella misteriosa lavorazione?
Non feci domande, tanto non mi avrebbe risposto nessuno. Tornai fuori, nella notte, lontano dalle luci elettriche.
Cercai di arrivare a quel fiume impetuoso, di cui prima avevo sentito soltanto il rumore, ma non riuscii a trovarlo; forse quel ruggito non proveniva da un corso d’acqua, ma era soltanto l’eco delle preghiere.
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giovedì 1 dicembre 2011
I pasti del serpente (compimento e rottura)
Agli occhi del pensiero simbolico il numero dodici è un cerchio.
Ma ogni cerchio è anche un movimento circolare; e quindi il dodici è anche la chiusura di un ciclo di tempo, il compimento di un periodo.
Il dodici è la stabilità raggiunta, un sistema che trova il suo equilibrio completo. Ma il raggiungimento di tale equilibrio comporta una rottura dello stesso: il tredici allora è il frutto maturo che si spacca cadendo, per lasciare i semi che conteneva alla terra. Il tredici non è un aumento rispetto al dodici, ma il suo stadio successivo, ch'è piuttosto una perdita, una rottura del cerchio ch'era il dodici.Dovete sapere che se Dio creò il pianeta Terra come una sfera è per contenervi il serpente, una cella di prigione dalla quale è impossibile evadere, simile ad una bolla di vetro.
Anche nella storia dell'umanità vale lo stesso principio: quando il dodici è raggiunto c’è un periodo di calma, e pace, che però è anche l’attesa d’una catastrofe.
La catastrofe è il risveglio del serpente: spinto dalla fame trascende la sfera in cui riposa incatenato, e salirebbe sulla superfice, se Dio non gli desse in pasto sufficiente sangue umano; allora il serpente si sazia, lo coglie la sonnolenza della digestione e se ne torna a dormire per un po’.
Ogni giro che una lancetta dell'orologio conclude è una goccia che disseta il serpente; sommate tutte assieme esse compongono il fiume chiamato Tempo, ma esso non è che un piccolo bicchier d'acqua se confrontato con la sete dell'immonda serpe.
Nella Bibbia i dodici figli di Giacobbe simboleggiano proprio uno di questi limiti storici: i dodici figli sono dodici tribù, dodici guardiani che sorvegliano in circolo il temibile serpente. Ma il cerchio venne spezzato, Giuseppe venne venduto dai suoi fratelli: ciò diede una via di fuga al serpente, uno spiraglio nel cerchio, che culminò nel sontuoso banchetto divino dello sterminio dei primogeniti in Egitto.
Badate però che il risveglio della fame del serpente e la rottura del cerchio non sono due cose distinte; non è l'una a causare l'altra, o viceversa, ma sono due manifestazioni del medesimo simbolo.
Nel nuovo testamento possiamo vedere come il figlio di Dio si fosse scelto dodici apostoli, dodici guardie del corpo per creare un circolo di difesa attorno alla sua Persona; fu il tradimento di uno d'essi a consegnare il Suo Sangue al serpente.
E' un mistero carico di crudeltà divina: era necessario che il sangue dell'agnello tingesse di rosso la terra, era un ordine dello stesso Dio di consegnare alla morte suo figlio, eppure colui che portò a termine tale comando si coprì del Sommo Male, e guadagnò per sè la suprema condanna e punizione.
La storia segue un modello eterno, che ritroviamo esposto nell'Apocalisse di Giovanni, nella storia della Donna vestita di Sole.
Anche la Gerusalemme celeste ha dodici porte: sarà veramente eterna la città di Dio, o conoscerà anch'ella la fine del ciclo, il tredici del serpente?
Passando dalla storia divina a quella umana, un triste esempio di risveglio del serpente fu lo scoppio dell'epidemia di peste nera che colpì l'Europa medievale.
Dio non aveva ancora insegnato la medicina agli uomini, ma aveva fatto loro conoscere dodici diverse preghiere per tenere distanti dalle terre cristiane le malattie ed i malori.
La prima preghiera veniva recitata ogni giorno, all'alba, nella vecchia chiesa di Gotenborg; la seconda l’ora successiva nella cattedrale di S. Pietro a Riga, e via così a distanza d’un ora; la terza in una piccola cappella privata a Minsk, la quarta in un monastero di Kiev, la quinta nella chiesa che sorgeva sul sito dove poi fu costruita la chiesa nera di Brazov; la sesta in una piccola chiesetta, ora distrutta, a Tirana, la settima nella chiesa del San Salvatore a Enna; l’ottava a Sassari, dove veniva recitata nel soggiorno della casa della famiglia più influente della città; la nona nella chiesa di Santa Eulalia a Palma di Maiorca, che fu costruita appositamente, col cantiere che si avvolgeva attorno al gruppo di preghiera; la nona a Bordeaux nella cattedrale di S.Andrea; la decima veniva recitata davanti ad un capitello all’incrocio fra strade campestri nei dintorni di Le Havre, l’undicesima nella cattedrale di Norwich e la dodicesima a Londra nella chiesa di San Bartolomeo il grande.
Il vergognoso scisma causato dal veleno con cui Lutero accecò l’Europa fu soltanto l’esito finale d’una serie di incrinature che da tempo insidiavano il mondo occidentale; e fu tramite una di queste incrinature che questo sistema di protezione medico-religiosa venne meno. La chiesa di Brazov venne infatti distrutta dalle incursioni degli invasori mongoli nel 1242. Bastò che una delle dodici stazioni di preghiera venisse meno per lasciare al morbo nero libero ingresso nelle terre cristiane: era il tredicesimo secolo.
La chiesa di Brasov fu poi ricostruita con pietra nera, proprio per commemorare questo triste evento.
Un altro esempio ancora ci viene dalla rivoluzione francese. L'aristocrazia malata e decadente era ciò che restava d'un enorme circolo nazionale volto a mantenere l'equilibrio e l'ordine stabilito; ancora nel 1798 erano in carica sette Conti segreti e cinque Marchesi magici impegnati con la loro anima a mantenere in vita il puzzolente cadavere d'un regno ormai anacronistico.
Fu con la morte del Duca di Nemours che tale sorpassata protezione venne meno, e si ebbe finalmente il via libera per lavare e purificare nel sangue il vecchio regno malato - con gran gioia dell'affamato serpente.
Non è sempre agevole trovare la traccia della rottura del dodici dietro gli orridi banchetti del serpente; ma il ricercatore attento saprà trovarla dietro ogni grande massacro della storia, dalle guerre mondiali alle catastrofi naturali, dagli eccidi etnici agli incidenti lavorativi, come i crolli delle miniere.
L'occidente europeo vive attualmente in uno dei periodi di stabilità, se stabilità si può chiamare l'affannosa lotta per tenere nelle ipocrite profondità della terra il malvagio appetito del rettile.
Dodici stelle d'oro in campo blu proteggono Europa; ma quando una d'esse cadrà dal cielo come una stella cadente, si aprirà nel cerchio uno spiraglio, e il serpente antico potrà entrare e far scempio delle vite degli uomini fino ad esser ebbro del loro sangue - come una volpe che trovi un pertugio d'ingresso nel recinto d'un pollaio.
La catastrofe è il risveglio del serpente: spinto dalla fame trascende la sfera in cui riposa incatenato, e salirebbe sulla superfice, se Dio non gli desse in pasto sufficiente sangue umano; allora il serpente si sazia, lo coglie la sonnolenza della digestione e se ne torna a dormire per un po’.
Ogni giro che una lancetta dell'orologio conclude è una goccia che disseta il serpente; sommate tutte assieme esse compongono il fiume chiamato Tempo, ma esso non è che un piccolo bicchier d'acqua se confrontato con la sete dell'immonda serpe.
Nella Bibbia i dodici figli di Giacobbe simboleggiano proprio uno di questi limiti storici: i dodici figli sono dodici tribù, dodici guardiani che sorvegliano in circolo il temibile serpente. Ma il cerchio venne spezzato, Giuseppe venne venduto dai suoi fratelli: ciò diede una via di fuga al serpente, uno spiraglio nel cerchio, che culminò nel sontuoso banchetto divino dello sterminio dei primogeniti in Egitto.
Badate però che il risveglio della fame del serpente e la rottura del cerchio non sono due cose distinte; non è l'una a causare l'altra, o viceversa, ma sono due manifestazioni del medesimo simbolo.
Nel nuovo testamento possiamo vedere come il figlio di Dio si fosse scelto dodici apostoli, dodici guardie del corpo per creare un circolo di difesa attorno alla sua Persona; fu il tradimento di uno d'essi a consegnare il Suo Sangue al serpente.
E' un mistero carico di crudeltà divina: era necessario che il sangue dell'agnello tingesse di rosso la terra, era un ordine dello stesso Dio di consegnare alla morte suo figlio, eppure colui che portò a termine tale comando si coprì del Sommo Male, e guadagnò per sè la suprema condanna e punizione.
La storia segue un modello eterno, che ritroviamo esposto nell'Apocalisse di Giovanni, nella storia della Donna vestita di Sole.
Anche la Gerusalemme celeste ha dodici porte: sarà veramente eterna la città di Dio, o conoscerà anch'ella la fine del ciclo, il tredici del serpente?
Passando dalla storia divina a quella umana, un triste esempio di risveglio del serpente fu lo scoppio dell'epidemia di peste nera che colpì l'Europa medievale.
Dio non aveva ancora insegnato la medicina agli uomini, ma aveva fatto loro conoscere dodici diverse preghiere per tenere distanti dalle terre cristiane le malattie ed i malori.
La prima preghiera veniva recitata ogni giorno, all'alba, nella vecchia chiesa di Gotenborg; la seconda l’ora successiva nella cattedrale di S. Pietro a Riga, e via così a distanza d’un ora; la terza in una piccola cappella privata a Minsk, la quarta in un monastero di Kiev, la quinta nella chiesa che sorgeva sul sito dove poi fu costruita la chiesa nera di Brazov; la sesta in una piccola chiesetta, ora distrutta, a Tirana, la settima nella chiesa del San Salvatore a Enna; l’ottava a Sassari, dove veniva recitata nel soggiorno della casa della famiglia più influente della città; la nona nella chiesa di Santa Eulalia a Palma di Maiorca, che fu costruita appositamente, col cantiere che si avvolgeva attorno al gruppo di preghiera; la nona a Bordeaux nella cattedrale di S.Andrea; la decima veniva recitata davanti ad un capitello all’incrocio fra strade campestri nei dintorni di Le Havre, l’undicesima nella cattedrale di Norwich e la dodicesima a Londra nella chiesa di San Bartolomeo il grande.
Il vergognoso scisma causato dal veleno con cui Lutero accecò l’Europa fu soltanto l’esito finale d’una serie di incrinature che da tempo insidiavano il mondo occidentale; e fu tramite una di queste incrinature che questo sistema di protezione medico-religiosa venne meno. La chiesa di Brazov venne infatti distrutta dalle incursioni degli invasori mongoli nel 1242. Bastò che una delle dodici stazioni di preghiera venisse meno per lasciare al morbo nero libero ingresso nelle terre cristiane: era il tredicesimo secolo.
La chiesa di Brasov fu poi ricostruita con pietra nera, proprio per commemorare questo triste evento.
Un altro esempio ancora ci viene dalla rivoluzione francese. L'aristocrazia malata e decadente era ciò che restava d'un enorme circolo nazionale volto a mantenere l'equilibrio e l'ordine stabilito; ancora nel 1798 erano in carica sette Conti segreti e cinque Marchesi magici impegnati con la loro anima a mantenere in vita il puzzolente cadavere d'un regno ormai anacronistico.
Fu con la morte del Duca di Nemours che tale sorpassata protezione venne meno, e si ebbe finalmente il via libera per lavare e purificare nel sangue il vecchio regno malato - con gran gioia dell'affamato serpente.
Non è sempre agevole trovare la traccia della rottura del dodici dietro gli orridi banchetti del serpente; ma il ricercatore attento saprà trovarla dietro ogni grande massacro della storia, dalle guerre mondiali alle catastrofi naturali, dagli eccidi etnici agli incidenti lavorativi, come i crolli delle miniere.
L'occidente europeo vive attualmente in uno dei periodi di stabilità, se stabilità si può chiamare l'affannosa lotta per tenere nelle ipocrite profondità della terra il malvagio appetito del rettile.
Dodici stelle d'oro in campo blu proteggono Europa; ma quando una d'esse cadrà dal cielo come una stella cadente, si aprirà nel cerchio uno spiraglio, e il serpente antico potrà entrare e far scempio delle vite degli uomini fino ad esser ebbro del loro sangue - come una volpe che trovi un pertugio d'ingresso nel recinto d'un pollaio.
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lunedì 18 aprile 2011
Un uovo della tempesta
Un uovo della tempesta,
custodito presso l’Imperial Regio Museo di Soleschiano. Oltre a questo ne rimane solamente un altro esemplare, posseduto dal Deposito Museale dell’Accademia di Scienze Nere di Stoccolma.
Son passati secoli dall’ultima volta in cui un uovo della tempesta è stato usato, e i suoi effetti non sono scientificsmente certi: il ricordo si avvolge nel manto della leggenda. Si dice che inseminando una nuvola con uno di essi si provochi una tempesta furiosa, capace di sradicare con neri venti di pioggia anche le querce secolari; due di essi usati sulla stessa nube provocano un’alluvione, e tre bastano per cancellare dalle mappe una nazione. Secondo alcuni al Creatore, per scatenare il diluvio universale, bastarono soltanto sei di queste tremende sfere.
E’ andata persa, grazie a Dio, l’arte di costruirli. Non è nota la particolare composizione chimica del vetro con cui veniva soffiata la bolla, nè lo stretto regime di temperature a cui occorre mantenerla.
Il vetro veniva soffiato a bocca, tramite una canna; secondo una tradizione il soffiatore doveva essere un bambino di non più d’otto anni. Poco prima della lavorazione il bimbo doveva respirare da un braciere i fumi della Digitalis lutea a pieni polmoni.
La diabolica e perversa arte dei creatori di uova stava nel calibrare finemente l’intossicazione, di modo che il soffio con cui il bimbo gonfiava la sfera fosse l’ultimo suo respiro – esalando l’ultimo fumo il bimbo rendeva la vita.
Nell’istante stesso della morte i fumi, prigionieri del vetro, collassavano formando i nastri neri serpentiformi, simili a fulmini di velluto nero che nuotano nel più scuro liquido blu cristallino.
lunedì 21 marzo 2011
Quando cogliemmo la rugiada secca
Dormivo nella mia grotta, sul mio giaciglio, quando la notte fu spenta da una luce non d'uomo: in essa nove messaggeri, danze lineari e distaccate.
Mentre danzavano, accadde che la luce, e il calore in essa, bruciò tutto ciò che di organico nella grotta vi fosse, e calcinò tutto ciò che organico non era.
Si avvinghiarono attorno al mio scheletro, avvolgendomi senza quasi più distinzione, e mi trascinarono verso cieli di spirito. Come rugiada al sole evaporarono i loro vestiti e, con l'aumentar dell'altezza, la loro pelle, gli organi e persino il loro soffio vennero al nulla.
Il mio resto fu allora condotto alla Sorgente, ed essa non parlò a me, ma continuò il suo canto, ch'è eterno, immutabile eppur sempre diverso, fluente dal silenzio al silenzio.
Il divenire
Quando il mio spirito si arrese al vibrare della sorgente, vidi l'immagine di un uomo, con una sfera d'avorio nella mano destra, ed una d'ebano nella sinistra.
Azione-reazione; causa-effetto
Così mi parlò: "Quando l'Essere venne a sè stesso, creò nell'abbandono il Non Essere; ogni azione infatti è cambiamento, e se ogni cambiamento è un moto, pure non v'è moto senza conseguenza; ecco, ciò che chiamate esistenza è questo mistero.
Tempo, e sua direzione; entropia; movimento
Quando lo spettro dell'uomo ebbe allontanato fra loro le sfere (e parve ai miei occhi che nel farlo anche lui venisse diviso) potei vedere un serpente librarsi nell'aria, passando da una sfera all'altra; e nel farlo contaminava la sfera candida con gocce di quella oscura, come se il suo corpo immondo ne trascinasse l'essenza; altrettanto faceva della sfera nera, striandola di un bianco neve.
Mai però le sfere divenivano uguali: piuttosto si cristallizzavano in vortici sempre più minuti, come una curva che rasenta un limite senza mai toccarlo.
Cercai di afferrare per la testa il serpente, ma questi divenne fuoco: e la cicatrice che la mia mano porta ne è segno e memoria.
Una voce dunque mi disse: la divisione dell'uno permette il mutamento, e il tempo in esso, ma ricorda: "Quando Dio trasse dall'oscurità le stelle, egli vide che le stelle si dispersero in cerchi d'infinite sfere attorno a lui: ma sembrò alle stelle che il corpo di Dio si smembrasse, e che ognuna di esse ne ricevesse una parte. Per evitare ciò il serpente inquina le sfere; e solo il serpente sa se mai queste torneranno ad esser una".
Energia
Non so per quanto tempo rimasi ad osservare la danza del serpente: nella mia mente non c'era pensiero, l'intera mia mente era vista. E quando in questa venne a scavarsi il solco del suo cammino, lo vidi liberarsi della sua pelle, ed apparire come una scia di scintille; continuamente andavano disperdendosi, ma nessuna di esse svaniva . e pur mescolandosi alla divisione, la loro luce complessiva rimaneva sempre costante: "E', Era, Sarà".
Materia e massa
La pelle del serpente intanto era diventata simile ad un uovo, oscuro e opaco. E benchè l'uovo fosse consustanziale alle scintille (la sua oscurità era infatti un concentrarsi, un collassare di luce), in esso era rappresentato il mantenimento, laddove il brillare di fiamme era cambiamento. Perciò venne dato all'uovo un nome di Madre.
Forze e campi
Questi erano i regni dei Tetrarchi, ai quali fu dato il potere di legare, e di sciogliere.
I loro regni si sovrappongono, eppur sono distinti i loro poteri; promanano forza come una sorgente, e nella distanza si affievolisce il loro vigore.
Temperatura; struttura della materia
Grande fu la mia sorpresa quando la mia mano raccolse l'uovo, chè l'avevo stimato freddo di movimenti; e invece tutto in lui era danza, vibrazione, dall'Eterno Enorme al Momento Minuscolo.
Di nuovo e sempre, "Esistenza è Mutamento".
Chimica
Ma quell'incendio per noi ciechi è una foresta ghiacciata; ed è in quei ghiacci che fu intagliata la città-reticolo di Khem. E col passare dei secoli, nelle sue torre presero dimora i Vermi dello Spirito.
"Leggi" o le immagini che così chiamiamo
Per ore, giorni e anni la sorgente si agitò, in infinite ricombinazioni di quanto avevo già visto.
Conobbi così molti misteri, le fragili leggi che comandano il mondo della mescolanza.
Conclusione
Eppure, più si ramificavano i riflessi della sorgente, più distante mi trascinavano dalla Radice, che io cercavo.
Nella stoltezza dell'ira, nella voracità prosciugai la sorgente d'un sorso.
-
Ecco, il doppio nodo, il Nous nella materia. Attraverso infiniti messaggeri (ed ogni messaggero era uno strato di degrado) mi venne detto:
"Ciò che hai visto finora sono i miei spettri che la Natura ha accolto in sè.
Dal mio soffio venne velata, e a me il velo ritorna, e quel velo è conoscenza: integrazione del Sè e dell'Altro. La Natura Vergine è infatti simile all'umano verbo "Essere" - se non viene legata da limitazioni è inconoscibile.
Fui io a gettare il seme della divisione, detto "L'Inizio"; eppure anch'io sono divisione.
Fui io a modellare le immagini che hai visto fin'ora, eppure da esse son nato.
Va', e aggioga queste astrazioni alla Vita: essa sola regna infatti il vostro mondo"
Mentre danzavano, accadde che la luce, e il calore in essa, bruciò tutto ciò che di organico nella grotta vi fosse, e calcinò tutto ciò che organico non era.
Si avvinghiarono attorno al mio scheletro, avvolgendomi senza quasi più distinzione, e mi trascinarono verso cieli di spirito. Come rugiada al sole evaporarono i loro vestiti e, con l'aumentar dell'altezza, la loro pelle, gli organi e persino il loro soffio vennero al nulla.
Il mio resto fu allora condotto alla Sorgente, ed essa non parlò a me, ma continuò il suo canto, ch'è eterno, immutabile eppur sempre diverso, fluente dal silenzio al silenzio.
Il divenire
Quando il mio spirito si arrese al vibrare della sorgente, vidi l'immagine di un uomo, con una sfera d'avorio nella mano destra, ed una d'ebano nella sinistra.
Azione-reazione; causa-effetto
Così mi parlò: "Quando l'Essere venne a sè stesso, creò nell'abbandono il Non Essere; ogni azione infatti è cambiamento, e se ogni cambiamento è un moto, pure non v'è moto senza conseguenza; ecco, ciò che chiamate esistenza è questo mistero.
Tempo, e sua direzione; entropia; movimento
Quando lo spettro dell'uomo ebbe allontanato fra loro le sfere (e parve ai miei occhi che nel farlo anche lui venisse diviso) potei vedere un serpente librarsi nell'aria, passando da una sfera all'altra; e nel farlo contaminava la sfera candida con gocce di quella oscura, come se il suo corpo immondo ne trascinasse l'essenza; altrettanto faceva della sfera nera, striandola di un bianco neve.
Mai però le sfere divenivano uguali: piuttosto si cristallizzavano in vortici sempre più minuti, come una curva che rasenta un limite senza mai toccarlo.
Cercai di afferrare per la testa il serpente, ma questi divenne fuoco: e la cicatrice che la mia mano porta ne è segno e memoria.
Una voce dunque mi disse: la divisione dell'uno permette il mutamento, e il tempo in esso, ma ricorda: "Quando Dio trasse dall'oscurità le stelle, egli vide che le stelle si dispersero in cerchi d'infinite sfere attorno a lui: ma sembrò alle stelle che il corpo di Dio si smembrasse, e che ognuna di esse ne ricevesse una parte. Per evitare ciò il serpente inquina le sfere; e solo il serpente sa se mai queste torneranno ad esser una".
Energia
Non so per quanto tempo rimasi ad osservare la danza del serpente: nella mia mente non c'era pensiero, l'intera mia mente era vista. E quando in questa venne a scavarsi il solco del suo cammino, lo vidi liberarsi della sua pelle, ed apparire come una scia di scintille; continuamente andavano disperdendosi, ma nessuna di esse svaniva . e pur mescolandosi alla divisione, la loro luce complessiva rimaneva sempre costante: "E', Era, Sarà".
Materia e massa
La pelle del serpente intanto era diventata simile ad un uovo, oscuro e opaco. E benchè l'uovo fosse consustanziale alle scintille (la sua oscurità era infatti un concentrarsi, un collassare di luce), in esso era rappresentato il mantenimento, laddove il brillare di fiamme era cambiamento. Perciò venne dato all'uovo un nome di Madre.
Forze e campi
Questi erano i regni dei Tetrarchi, ai quali fu dato il potere di legare, e di sciogliere.
I loro regni si sovrappongono, eppur sono distinti i loro poteri; promanano forza come una sorgente, e nella distanza si affievolisce il loro vigore.
Temperatura; struttura della materia
Grande fu la mia sorpresa quando la mia mano raccolse l'uovo, chè l'avevo stimato freddo di movimenti; e invece tutto in lui era danza, vibrazione, dall'Eterno Enorme al Momento Minuscolo.
Di nuovo e sempre, "Esistenza è Mutamento".
Chimica
Ma quell'incendio per noi ciechi è una foresta ghiacciata; ed è in quei ghiacci che fu intagliata la città-reticolo di Khem. E col passare dei secoli, nelle sue torre presero dimora i Vermi dello Spirito.
"Leggi" o le immagini che così chiamiamo
Per ore, giorni e anni la sorgente si agitò, in infinite ricombinazioni di quanto avevo già visto.
Conobbi così molti misteri, le fragili leggi che comandano il mondo della mescolanza.
Conclusione
Eppure, più si ramificavano i riflessi della sorgente, più distante mi trascinavano dalla Radice, che io cercavo.
Nella stoltezza dell'ira, nella voracità prosciugai la sorgente d'un sorso.
-
Ecco, il doppio nodo, il Nous nella materia. Attraverso infiniti messaggeri (ed ogni messaggero era uno strato di degrado) mi venne detto:
"Ciò che hai visto finora sono i miei spettri che la Natura ha accolto in sè.
Dal mio soffio venne velata, e a me il velo ritorna, e quel velo è conoscenza: integrazione del Sè e dell'Altro. La Natura Vergine è infatti simile all'umano verbo "Essere" - se non viene legata da limitazioni è inconoscibile.
Fui io a gettare il seme della divisione, detto "L'Inizio"; eppure anch'io sono divisione.
Fui io a modellare le immagini che hai visto fin'ora, eppure da esse son nato.
Va', e aggioga queste astrazioni alla Vita: essa sola regna infatti il vostro mondo"
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venerdì 18 marzo 2011
Bandiere
La verità è come una bandiera: la si ostenta senza sapere ch'essa si piega ad ogni vento.
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venerdì 11 marzo 2011
Gramigna
Furono ritrovare, in una miniera della Siberia orientale, le ossa di un demone dei tempi antichi.
Fu subito fatto portare nelle terre del tramonto e, con le arti di quel luogo, fu lì ridato alla luce (e non è difficile, per un demone, ridestarsi alla vita).
Fu così che crebbe, e devastò quei regni, prima di tornare a esser uno scheletro nella terra.
Fu subito fatto portare nelle terre del tramonto e, con le arti di quel luogo, fu lì ridato alla luce (e non è difficile, per un demone, ridestarsi alla vita).
Fu così che crebbe, e devastò quei regni, prima di tornare a esser uno scheletro nella terra.
martedì 8 marzo 2011
Eresia del ritorno
Un bestemiatore annunciava nelle nostre piazze che il soffio che diede vita all'uomo era tutt'uno con la luce della distruzione, di cui parlano i nostri libri della fine.
Fu messo al rogo in quelle stesse piazze, sullo stesso fuoco che cuoce il nostro pane.
Fu messo al rogo in quelle stesse piazze, sullo stesso fuoco che cuoce il nostro pane.
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venerdì 4 marzo 2011
Pomeriggio di maggio
martedì 15 febbraio 2011
L'oro blu
Vidi un fiume bagnato dalla luce dell'Ora Blu - immerse nell'acqua di zaffiro miriadi di stelle portate dalla corrente; in ogni stella un colore, ed una danza, e il fiume. Ogni stella cantava a sè la propria vita, e nel fiume si sommava, in un canto orribile, sublime.
Dove sfocia la tua marcia, in che si getta la tua vita, fiume?
La mia vista non vede oltre quell'ansa, e indietro non è lecito voltarsi.
Dove sfocia la tua marcia, in che si getta la tua vita, fiume?
La mia vista non vede oltre quell'ansa, e indietro non è lecito voltarsi.
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venerdì 4 febbraio 2011
Due mani e un gesto
V'era un tempo in cui lo spirito camminava sulle vaste pianure della terra; fu in quel tempo che nacque e vide la luce un consacrato, e grande era lo splendore in quel fanciullo; prodigi annunciarono la sua venuta, pastori e greggi si prostrarono ai suoi piedi.
Venne dunque dall'Idumea un artigiano, il cui nome non arrivò mai a noi: v'è chi dice che fosse Edom in persona, Re bandito nel suo stesso Regno.
E stentò un inchino l'artista dinnanzi al fanciullo; e a malapena trattenne il sorriso quando il bambino s'accigliò malevolmente; ma questi trattenne le guardie dal percuotere lo straniero, e disse: "Di certo il tuo sguardo non è così vasto da ammettere l'immensità su cui s'affaccia; eppure anche per distruggere il vostro sguardo venni, e per donarvene uno nuovo, d'Abisso".
Davvero l'artigiano non capì le parole del figlio divino; sembrava soltanto intento a chinar la testa per celare il suo scherno. Disse infine: "Non distruggere il mio sguardo, giovane padrone. Ecco: ti ho portato dalle mie terre un dono". E mentre tagliava il silenzio con quelle parole, estrasse dalla sua sacca una statua, d'argilla, e un pennello, e dell'inchiostro.
Non avrebbe reso che pochi danari, al mercato, quel lavoro: era plasmato da mani inesperte, e crepe su di esso rivelavano un fuoco troppo violento nel forno del suo paese. E nonostante sul volto dell'artigiano vi fossero i segni della saggezza, con il pennello non fece altro che tracciare una lettera, Shin,
sulla fronte del feticcio; e una goccia che colava sembrò fatica e sudore, lagrime nere.
Di nuovo si mossero le guardie per scacciare l'uomo: ma se ne andò da solo, mestamente, e sembrò che quel mattino mai nessuno fosse venuto in visita.
Disse infine il bambino all'idolo: "Questa piccola mano che ora stringo in un pugno, questa tenera porzione di tremenda eternità, sarà spada per voi immagini antiche, distruzione di quanto fu già scritto".
Rispose la statua: "Di terra e sangue è il tuo soffio di vipera; sulla terra e sul sangue poggia il tuo trono".
Tuonò il fanciullo! "Infame abominio! Opera stolta! Non vedi la legge nuova che io porto, il fragore della rivoluzione?"
E spiegò la legge nuova fino a sera, e le guardie si prostrarono ai suoi piedi, in meraviglia. Ma sorrise soltanto l'abominio, sorrise soltanto: quelle nuove verità le aveva udite da tempo sulla bocca di infinite albe, infiniti tramonti.
E fu colmo d'ira il cuore del bambino, e in quell'ira traboccante levò il pugno, mandò in frantumi il dono: oracolo dei secoli a venire.
Ma accadde che una scheggia della statua si conficcò sotto l'unghia rosata del principe, e restò lì sino alla sua morte, tormentandolo di dolori, e d'infezioni: oracolo dei secoli venturi.
Venne dunque dall'Idumea un artigiano, il cui nome non arrivò mai a noi: v'è chi dice che fosse Edom in persona, Re bandito nel suo stesso Regno.
E stentò un inchino l'artista dinnanzi al fanciullo; e a malapena trattenne il sorriso quando il bambino s'accigliò malevolmente; ma questi trattenne le guardie dal percuotere lo straniero, e disse: "Di certo il tuo sguardo non è così vasto da ammettere l'immensità su cui s'affaccia; eppure anche per distruggere il vostro sguardo venni, e per donarvene uno nuovo, d'Abisso".
Davvero l'artigiano non capì le parole del figlio divino; sembrava soltanto intento a chinar la testa per celare il suo scherno. Disse infine: "Non distruggere il mio sguardo, giovane padrone. Ecco: ti ho portato dalle mie terre un dono". E mentre tagliava il silenzio con quelle parole, estrasse dalla sua sacca una statua, d'argilla, e un pennello, e dell'inchiostro.
Non avrebbe reso che pochi danari, al mercato, quel lavoro: era plasmato da mani inesperte, e crepe su di esso rivelavano un fuoco troppo violento nel forno del suo paese. E nonostante sul volto dell'artigiano vi fossero i segni della saggezza, con il pennello non fece altro che tracciare una lettera, Shin,
sulla fronte del feticcio; e una goccia che colava sembrò fatica e sudore, lagrime nere.
Di nuovo si mossero le guardie per scacciare l'uomo: ma se ne andò da solo, mestamente, e sembrò che quel mattino mai nessuno fosse venuto in visita.
Disse infine il bambino all'idolo: "Questa piccola mano che ora stringo in un pugno, questa tenera porzione di tremenda eternità, sarà spada per voi immagini antiche, distruzione di quanto fu già scritto".
Rispose la statua: "Di terra e sangue è il tuo soffio di vipera; sulla terra e sul sangue poggia il tuo trono".
Tuonò il fanciullo! "Infame abominio! Opera stolta! Non vedi la legge nuova che io porto, il fragore della rivoluzione?"
E spiegò la legge nuova fino a sera, e le guardie si prostrarono ai suoi piedi, in meraviglia. Ma sorrise soltanto l'abominio, sorrise soltanto: quelle nuove verità le aveva udite da tempo sulla bocca di infinite albe, infiniti tramonti.
E fu colmo d'ira il cuore del bambino, e in quell'ira traboccante levò il pugno, mandò in frantumi il dono: oracolo dei secoli a venire.
Ma accadde che una scheggia della statua si conficcò sotto l'unghia rosata del principe, e restò lì sino alla sua morte, tormentandolo di dolori, e d'infezioni: oracolo dei secoli venturi.
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